
26 Mar Traccia di omelia della domenica delle PALME (anno A) – 02 Aprile 2023
IL MISTERO DELLA CROCE
(Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66)
La passione è il tema che polarizza l’attenzione del credente in questo periodo dell’anno liturgico. La vita e la missione di Gesù è stata segnata dalla sofferenza. Anch’egli ha dovuto soggiacere a un «destino» che mortificava le sue più elementari aspirazioni. Le prove di cui parlano chiaramente gli evangelisti (Mt 4,1-11; Lc 4,1-12), rivelavano le sue propensioni a percorrere un sentiero di gloria, ma il Padre gli chiedeva che confondesse la sua esistenza con quella degli umili, dei deboli, dei peccatori, per liberarli dalla paura, dalla povertà, dal male e avviare con loro una convivenza di amici, di eguali, di fratelli, la grande famiglia dei figli di Dio in cui non c’era posto per i potenti, i dominatori dei propri simili. «Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve», aveva detto nel corso della sua vita missionaria (Mt 20,28).
L’accusa mossagli dai sinedriti davanti a Pilato che sollevava il popolo (Lc 23,5) era in qualche modo vera. Infatti il suo messaggio era destinato a sovvertire dalle fondamenta l’ordine costituito, per dar spazio a un altro più equo, più umano. Gesù ha predicato la fraternità e l’amore senza restrizioni di razze e di frontiere, ma soprattutto l’ha attuata nei suoi riferimenti personali e nelle sue scelte, per questo l’hanno fermato.
Egli è morto per la moltitudine, per ricuperare i diritti di tutti, prima di ogni altro quello di chiamare Dio padre. La croce pertanto è il segno di un grande dolore, ma più ancora di un grande amore (cfr. Itinerario spirituale di Cristo, Assisi 1974, voi III. Il Salvatore, p. 133).
La passione non è tanto la vittoria dei nemici quanto di Gesù che ha preferito morire, più che abdicare al suo impegno, trasgredire la volontà del Padre che gli chiedeva la sua piena dedizione al bene dei fratelli. Egli sa a chi ha creduto, ma nel dolore il volto del Padre è nascosto dall’oscurità e dal buio che avvolge il suo spirito.
La sofferenza al pari del male è il mistero che accompagna laresistenza umana. In Cristo essa ha una risposta ma la sua evidenza si fa ancora attendere. Troppo spesso i due opposti, il dolore e la gioia, sembrano destinati a coesistere, ma la fede suggerisce che solo il bene è destinato a trionfare.
Prima lettura «Non mi sono ribellato» (Is 50,5)
Il passo di Is 50,4-6 è il terzo canto del servo di Jahvé (cfr. 42,1-4; 49,1-7; 52,13-53,12), una delle composizioni maturate nell’amara esperienza dell’esilio e della mancata restaurazione. L’anima israelitica si è affinata nelle umiliazioni e nel dolore; invece di ribellarsi ha imparato ad attendere con fiducia la salvezza. Essa non verrà da dimostrazioni di potenza ma dall’accettazione di prove e di contraddizioni. Anche se non è sicura l’identità del «servo» (può essere una collettività più che un individuo) è indiscussa la nuova strada della salvezza che i carmi annunziano. Non si può fare affidamento sulla dinastia davidica, sugli uomini, ma solo su Jahvé, sulla sua fedeltà agli impegni presi, sulla fiducia e sull’abbandono in lui.
C’è un solo maestro capace di segnalare all’uomo la via giusta, quella della verità e del bene, e questi è Dio. I suoi insegnamenti non arrivano tutti a un tratto, come nella scuola l’alunno non impara tutto alla prima lezione. Vi è una fase di iniziazione e quindi di maturità. Israele va apprendendo con fatica la lezione dell’esilio, ma una volta che l’ha appresa si è liberato dal panico e dalla disperazione.
C’è da spaventarsi nell’apprendere le dure clausole a cui era subordinata la fine dell’esilio, nel prendere coscienza dei segni della predilezione divina, ma il discepolo fedele (l’Israele di Dio) non cessa di tendere l’orecchio per capire fino in fondo tutto il contenuto dell’amara lezione.
L’autore invita a leggere in chiave profetica l’esperienza babilonese. Mentre il popolo soffre angherie e soprusi Iddio parla al suo cuore per segnalargli i risvolti di quella tragica esperienza. Più che ribellarsi, occorre saper attendere. Il messaggio non viene dai Babilonesi, ma da Jahvé che non mancherà di premiare quanti l’hanno docilmente ascoltato.
Seconda lettura «Umiliò se stesso» (Fil 2,8)
Il celebre inno cristologico è inserito nella parte esortativa della Lettera ai Filippesi (1,27-2,18). «Comportatevi in maniera degna del vangelo», ha chiesto l’apostolo (1,27), e riprendendo aggiunge: «Comportatevi tra voi come si addice a quelli che sono in Cristo» (4,2-5). Dall’esterno premono i nemici (1,28), dall’interno sembrano affiorare divisioni, forme di vanagloria (2,1-4). Per sostenere gli urti e attenuare le rivalità i fedeli sono invitati a ispirarsi all’umiltà (tapeinophrosyne) del salvatore.
È importante ricordare che il soggetto del testo è Gesù Cristo, il profeta di Nazaret si può aggiungere. L’autore segnala i suoi comportamenti, le sue scelte nel compimento della sua missione. Il termine greco morphé, tradotto abitualmente con natura, ha un significato più esteso, equivale a «condizione», «modi di esistere», «forma». Pertanto Gesù nell’espletare il suo mandato pur avendo davanti a sé una possibilità diversa, quella corrispondente alla condizione di un inviato divino, non l’ha ritenuta inalienabile, anzi se ne è spogliato (ekenòsen) assumendo un modo di esistere opposto; quello del comune uomo, addirittura del servo.
Non è il Verbo preesistente che non disdegna di assumere la natura umana, ma il Cristo storico che potendo vivere in mezzo agli agi e agli onori di un dio, ha preferito essere un uomo in tutto eguale agli altri.
Alla kenosis (spogliazione) segue la tapeinosis (umiliazione). L’obbedienza di Gesù è rivolta sempre al Padre, ma in questo contesto denunzia più la remissività, l’abbandono di se stesso (senza intentare alcuna difesa) ai nemici, ai crocifissori che la docilità a Dio. E in questo modo, attraverso questa via che si sono resi noti i suoi «sentimenti» di umiltà a cui i fedeli sono invitati a ispirarsi nei loro reciproci rapporti.
L’umiliazione, la morte di croce è per Gesù la via e il prezzo («per questo») della risurrezione, che è la condizione per l’elevazione alla destra del Padre. Essa è la più eccelsa che si possa dare, la più onorifica per questo. Da tal punto di gloria Gesù sovrasta tutte le creature e riceve il loro incondizionato omaggio. È il signore, evidentemente dell’universo, titolo proprio di Dio attribuito ora anche a lui.
Vangelo «Cominciò a provare angoscia» (Mt 26,37)
vedi anche https://dehonianiandria.it/lectio/
La passione è stata vissuta prima dell’evento pasquale, ma è stata raccontata dopo. La luce del risorto è venuta a stemperare le tinte del quadro originario. Il grado di dolore e di umiliazione a cui Gesù è andato incontro è attenuato nei racconti attuali, ordinati più a cancellare lo scandalo della croce, a riassorbirlo nell’ambito di una programmazione divina, di una previsione profetica che a ritrarlo nella sua obiettività. Non sono i nemici che hanno vinto ma il Padre e la docilità di Gesù al suo volere; i nemici sono stati strumenti inconsapevoli di un piano che contemplava anche la loro rovina.
Il dramma della passione si svolge sulla terra ma è deciso in cielo. Esso si apre infatti con la consegna che il Padre fa del figlio ai malfattori perché lo crocifiggano (Mt 26,2) e Gesù prima che ciò avvenga ne ragguaglia i dodici, predicendo insieme il loro tradimento e l’abbandono (26,21,30,34) affinché comprendano con quale lucidità e padronanza va incontro ai tragici avvenimenti che lo riguardano. Egli non è all’oscuro di ciò che l’attende, ma nel Getsemani l’avvicinarsi dell’ora lo preoccupa e lo turba. È forse l’unico momento in cui l’evangelista lascia allo scoperto l’animo di Gesù. Il racconto attuale mitiga il tono dell’agonia e persino della morte di croce, ma debbono essere state ore strazianti. L’autore della Lettera agli Ebrei parla di «lacrime e di forti grida» (5,7). Matteo di tristezza e di angoscia da morire (26,37). L’umanità del salvatore è come accasciata sotto un peso più grande delle sue forze. Anche in lui la «\carne», la sua realtà umana dà segni di grande debolezza (26,41), ma riesce a riprendersi, si rialza e muove impavido contro i nemici (v. 46). Davanti ad essi nessun segno di paura, di titubanza o di ribellione. Non rimprovera neanche Giuda, né la masnada che lo segue, ma i suoi discepoli che presi dal panico hanno improvvisato una difesa armata (25,51). Non tanto perché essa è impari, ma perché egli non ne ha bisogno; può disporre di ben altre forze, ma non crede di doverle mettere in atto.
I discepoli l’abbandonano, ma neanche questo è motivo di disonore e di ulteriori afflizioni, piuttosto, è un nuovo dato a suo favore perché conferma gli oracoli scritturistici che avevano ciò previsto e le sue anticipazioni. Anche davanti al supremo tribunale Gesù non si lascia intimidire, ma lancia ai suoi giudici la suprema sfida: colui che stavano per condannare era il plenipotenziario divino previsto dal profeta Daniele (7,13). Si sarebbe visto chi aveva ragione.
Il rinnegamento di Pietro e la fine di Giuda sono ricordati soprattutto per la loro portata apologetica e pastorale. La partecipazione, i sentimenti di Gesù non sembra che interessino l’evangelista.
Il processo davanti a Pilato è ricordato solo per quei tratti che mettono in rilievo l’innocenza del messia e la colpevolezza di coloro che lo hanno accusato, posponendolo persino a un comune malfattore.
La coronazione di spine e l’ossequio dei soldati rientra tra le libertà che potevano permettersi i carcerieri, ma per l’evangelista è una parabola che prelude al reale trionfo che attende il messia. Esso passa attraverso le umiliazioni, le derisioni, la crocifissione che è per di più segno di riprovazione e di maledizione divina (cfr. Dt 21,23).
La morte segna la sconfitta e la fine, in realtà è da qui che prende avvio il trionfo di Gesù. Il riconoscimento che i nemici gli hanno negato, che trovano anzi proprio nella sua sconfitta la riprova della loro accusa, in quanto Dio non viene, come avrebbe dovuto, a liberarlo, gli è accordato da un estraneo, il centurione a cui si associano le donne venute dalla Galilea, in pratica dalla chiesa dei gentili che ormai ha sostituito quella dei circoncisi.
Più che interessarsi del dramma di Gesù l’evangelista si interessa del dramma giudaico, della chiesa, dei discepoli, ma il dramma personale di Cristo anche se attutito, cancellato rimane.
La passione è la fine scontata della strada che Gesù ha scelto di percorrere. Non è stato facile orientarsi nella sua vocazione e missione. Sembrava che dovesse percorrere una via maestra, rivestito di potestà e gloria, ma la voce dello Spirito gli additava un sentiero nascosto, quello del servo chiamato a dare la vita non per un’élite ma per l’intera moltitudine umana. Questa aveva bisogno di chi le tendesse una mano, che si facesse carico dei soprusi che da sempre subiva, che sposasse la sua causa. Non è stato facile cogliere queste segnalazioni e meno ancora farne il programma della propria vita, ma accettando un tale compito e imponendosi una tale linea Gesù non poteva non urtarsi con le correnti religiose e politiche del paese che trovavano inconcepibili le sue rivendicazioni e si sono sentite costrette a intervenire.
Gesù muore vittima del suo amore umano; la croce segna il peso e l’atrocità della sua sofferenza ma soprattutto il grado della sua dedizione alla volontà del padre e al bene della comunità umana.
CONCLUSIONE
Il cristiano è invitato in questo tempo a contemplare il crocifisso. Quello che Gesù ha sopportato per la causa della verità e del bene è quanto attende ora i suoi seguaci. Occorre perseverare con Cristo sino alla fine, anche contro ogni speranza, direbbe l’apostolo (Rm 4,18).
La passione di Gesù non è una rappresentazione sacra, ma il momento più tragico della sua esistenza, la prova spirituale e fisica che ha coronato la sua missione e che rimane il traguardo, il banco di prova per tutti i suoi seguaci.
Sorry, the comment form is closed at this time.