Traccia di omelia della domenica dell’Ascensione (21 Maggio 2023)

Traccia di omelia della domenica dell’Ascensione (21 Maggio 2023)

LA MÈTA CHE TUTTI ATTENDE

(At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)

 

La vera ascensione, il trapasso che Gesù compie dalla terra al cielo, è avvenuta nel mattino di pasqua, senza spettatori e testimoni. In Gv 20,17 Gesù risorto dichiara alla Maddalena che sta risalendo al Padre e lo stesso giorno appare ai dodici assicurandoli dei poteri conseguiti (Gv 20,21). È sempre dall’alto che egli viene ogni volta che si manifesta a loro. Solo Luca parla dell’ascensione visibile; il qua­dro che ne lascia non è che l’ultima apparizione del risorto; il suo «de­finitivo» ingresso nella «dimora celeste».

Il mistero dell’ascensione ha la stessa portata di quello della ri­surre­zione. Al di dentro del ritorno di Gesù al cielo vi è una mutazio­ne di stato, un passaggio che si verifica in tutto il suo essere. Da pove­ra, umile, servile la sua umanità diventa gloriosa, potente, divina. San Giovanni parla fre­quentemente di «elevazione», «esaltazione», «glo­rificazione»; Paolo addirittura di «giustificazione» (cfr. Rm 6,7; 1Tm 3,16), «nuova nascita» (At 13,33). Gesù crocifisso è un vinto, risorto è «costituito figlio di Dio potente» (Rm 1,4). Fermarsi agli aspetti scenografici dell’evento è dimen­ticare il suo significato profondo.

Il quadro di At 1,9-11 dà l’impressione che la fede degli apostoli sia stata accompagnata da segni precisi, sicuri, inequivocabili; ma è una let­tura che semplifica troppo la natura degli eventi e tie­ne poco conto del linguaggio apocalittico o apologetico. Gli apostoli nell’ipotesi più blanda hanno rivisto appena un’immagine abbozzata del salvatore; solo con gli occhi della fede si sono spinti fino al Signo­re vivente nei cieli.

Prima lettura «Perché state a guardare?» (At 1,11)

Il brano di At 1,1-11 consta di un «prologo» (vv. 1,2); di una digres­sione sul «ministero» del Cristo risorto (vv. 3-8) con accenni alla missione degli apostoli (vv. 5-8) e al tema del libro (v. 8) infine segue il «racconto» dell’ascensione (vv. 9-11), che chiude realmente l’esistenza terrestre di Cri­sto. Il Cristo si pre­para a uscire dalla storia e al suo posto fa entrare ormai i suoi suc­cessori, gli apostoli (vv. 2-3) o più semplicemente la comunità («quelli che erano radunati»: v. 6). Tra breve essi saranno abili­tati alla missione da svolgere (v. 5). I loro compiti non sono circo­scritti alla restaurazione della monarchia israelitica, ma alla costi­tuzione di un regno senza più confini (v. 8).

La scena dell’ascensione è l’ultimo tratto, ma il principale, del «qua­dro». Gesù è «sottratto» allo sguardo degli astanti, «ver­so l’alto» (v. 9). Più sotto è ribadito: «se ne andava», verso il cielo (v. 10). L’ascensione visibile appare come una risalita lenta, spettacolare di Gesù verso la sua dimora celeste.

I dubbi o gli equivoci sulla sua destinazione sono dissipati da due uo­mini bianco vestiti (il bianco è simbolo di durata, eternità: Dn 7,9; Ap 1,14) che vengono ad assicurare che il Cristo non si è etereizzato, ma vive ancora e verrà nuovamente a loro.

Il «cammino verso il cielo», la «nube» (esclusivo emblema di Jahve), attestano la realtà superiore, divina del Cristo.

I due testimoni sono gli stessi della trasfigurazione. Solo in Luca in­fatti essi parlano con Gesù del suo «esodo da Gerusalem­me» (9,31). La scena è parallela a una teofania pasquale.

La data dei 40 giorni non è da calcare; è solo approssimativa come altre volte nella Bibbia (cfr. Gen 7,4; 12,17; Es 24,18; Nm 13,24; 1 Re 19,8 ecc.). In At 13,31 l’autore afferma: «per molti giorni».

Seconda lettura «Alla sua destra» (Ef 1,20)

Il testo di Ef 1,17-23 sotto forma di preghiera richiama i rap­porti che i credenti hanno con Dio a cui Gesù deve far riferimen­to e dal quale pro­vengono tutti i favori, gli aiuti di cui i fedeli hanno bisogno. Il primo posto è occupato dallo «spirito di sapienza e di rivelazione» (v. 17). La «sa­pienza» è il segreto agire divino, il piano della sua azione salvifica che comunica a quanti sono in co­munione con lui (conoscenza in senso pieno). Non una pura con­quista, ma un’illuminazione interiore percepita con gli occhi del cuore, una personificazione delle facoltà conoscitive dell’uomo. In forza di questa superiore assistenza il credente si spinge fino alle ultime fasi della salvezza. Con la sua speranza, che può essere de­finita un’inquie­tudine del presente, il cristiano va al di là di tutte le sue realizzazioni stori­che o terrestri. Anche qui la mèta è un’e­redità, un premio più che un gua­dagno. Le sue proporzioni sono tuttavia straordinarie poiché si tratta di par­tecipare alla stessa vi­ta divina (gloria), nella comunione del santi (v. 18).

L’azione di Dio, a cui l’apostolo ha fatto riferimento e di cui ha sotto­lineato le ripercussioni ha avuto una illustrazione insupe­rabile nella risur­rezione di Cristo; in questa più che nella prima creazione. Tre sostantivi sono necessari per descriverla, anche se rinviano a uno stesso attributo: energia, potenza, forza. L’accu­mulazione serve a far comprendere la portata dell’impresa che egli ha attuato in Cristo e indirettamente nel cristiano. Non si tratta di riportare in vita un uomo, ma di «cambiare» il corso della sto­ria, di aprire un nuovo secolo, irradiato di gloria, la stessa di cui è rivestito già Cristo.

La risurrezione non è tanto un fatto personale di Gesù, quanto un evento salvifico, di cui mette in luce gli aspetti più nascosti. Il termine sot­tolinea il cammino ascensionale della storia.

L’attenzione dell’apostolo ritorna (cfr. 1,7-12) quindi al Cri­sto. Egli è al centro del mistero (cfr. 1,9); in lui avviene la ricapi­tolazione di tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che sulla terra (1,10).

L’«insediamento» alla destra di Dio è un genere letterario adibito già dal salmista (110,1) per sottolineare la dignità del messia. Da tale altezza egli sovrasta tutti gli esseri, i principati, le po­testà, le dominazioni, un elenco di imprecisa portata che richiama verosimilmente gli angeli o spiriti, che le concezioni filosofiche del tempo (gnosticismo, platonismo) interpo­nevano tra Dio e l’uomo. Non c’è alcun mediatore al di fuori di Cristo, af­ferma invece Pao­lo. A lui è soggetta ogni cosa; egli è il capo di tutta la creazione (v. 22).

Questa signoria di Cristo si riversa, infine, sulla chiesa, suo corpo e insieme suo plèroma. Le due designazioni richiamano fi­gurativamente gli stretti rapporti tra Gesù e la comunità dei cre­denti; essi sono insostituibili e vitali come quelli che esistono tra la testa e il corpo nell’uomo. La comunità non è un’appendice, ma la stessa pienezza di Cristo, ciò fa comprendere che egli la ricolma con la sua presenza, la sua forza, la sua vita.

Vangelo «Tempo della Chiesa, istruzioni per l’uso» (Mt 28,16-20)

vedi anche https://dehonianiandria.it/lectio/

L’ascensione è. in realtà, presentata come tale solo in Luca e in Marco. Matteo e Giovanni invece, alla fine della narrazione evangelica, presentano solo un’ultima apparizione del Risorto.

Il tema ascensione ha due risvolti relazionali: quello verticale, il ritorno di Gesù al Padre, e quello orizzontale, che segna la fine delle per­cezioni sensibili che di lui hanno avuto i discepoli.

Se culturalmente collochiamo Dio nel “Cielo”, il ricongiungimento a lui del Risorto sarà letto come un movimento ascensionale. Così Marco può rivisitare l’evento-Ascensione in chiave apocalittica giudaica: “fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio” (Mc 16, 19). Anche Luca può leggerlo come ascensione, l’ellenista che parla agli ellenisti e deve adottare il loro linguaggio e i loro moduli espressivi e scenografici: “Mentre li bene­diceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (24,51). E “fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi”(At 1,9).

Matteo invece ha una sua particolare interpretazione del post-resurre­zione: c’è un unico appuntamento con il Risorto e non a Gerusalemme, città esclusiva, città del rifiuto e della morte, ma nella Galilea dell’inprincipio dell’avventura, crocevia interculturale, inclusiva di realtà pagane. Prima e ultima apparizione ai discepoli non segnerà un distacco di Gesù, ma un suo essere, altrimenti, compagno, più che mai vicino. Nella logica della incarna­zione qui, più che un’ascensione, possiamo contemplare una discesa di Gesù, lui che si fa continuamente vicino, dallo scoccare della buona notizia a quest’ultimo movimento, si avvicinò (v 18), come il Regno che lui rap­presenta e come il Dio con-discendente che ha scelto già di farsi vicino nel suo figlio.

Questa interpretazione del distacco, secondo Matteo, è più vicina alla nostra attuale sensibilità. Ha risvolti esistenziali, legati al senso profondo della definitiva iden­tità del Risorto: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (e qui Matteo chiude i conti con la terza tentazione del Satana); frutto e premio della sua fedeltà irrevocabile al Dio Padre, questa investitura porta Gesù ad autopercepirsi onnipotente nell’amore, sia nella sfera di Dio, di cui condi­vide e racconta la capacità infinita e incondizionata di dono, sia nella sfera della storia umana che ha immerso nell’espansivo e irrefrenabile dinami­smo di tanto amore.

Risvolti esistenziali anche nei riguardi della comunità dei discepoli che si vedono letti nella loro ferita identità di gruppo, undici, cifra del tra­dimento; e nella identità di singoli, reduci da una sconfitta amara, sin qui esposti a dolorosa perplessità: “Essi però dubitarono”. Sono in preda ai dubbi sul loro coinvolgimento presente e futuro con una persona divina così stupefacente, così diversa dal rabbi che, rapiti, avevano cominciato a se­guire in Galilea; così diversa dal Messia sperato vincitore e invece sconfitto che, desolati, avevano pianto; così diversa da un fondatore che va via, la­sciando ai suoi un programma, un complesso di conoscenze da diffondere.

Come continuare a vivere questa relazione nel territorio dell’assenza? Assenza totale perché lui non è più il Lui conosciuto con cui si intrattene­vano in condivisione fraterna di vita. Ora sentono di prostrarsi davanti un totalmente Altro, destinato ad altro. Mentre per sé non intravedono che il culto della memoria

E invece: Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli. A loro il man­dato di continuare da quella Galilea, verso tutte le genti, la missione del Cri­sto, che è un annunzio dirompente di gioia vitale. Vengono inseriti ora nella vita del Risorto, già partecipi della sua comunione divina, con la capacità di trasmetterla all’infinito, in una catena che attraversa nel tempo le gene­razioni e nello spazio i confini delle etnie, immersi nelle energie della re­surrezione di Gesù e portando a pienezza il precedente “Vi farò pescatori d’uomini”.

All’origine di questa vastissima comunità familiare che sarà la Chiesa, c’è quella primigenia divina nella cui realtà dovranno immergere i singoli: “battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. È la prima formulazione trinitaria del vangelo di Matteo, eco della prassi liturgica. L’evocazione dello Spirito Santo, discreta quanto decisiva, è la chiave di volta di una trasformazione che farà di un debole e fragile aggregato umano la famiglia di Dio, di un impaurito e demotivato gruppu­scolo di uomini una comunità di fratelli disposti a fare spazio in sé ad altri uomini, a prenderne in carico le gioie i dolori, condividendone il cammino.

“Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (reminiscenza mosaica che rinvia alle Beatitudini come Nuova Legge per i discepoli di Gesù). L’unica autorizzazione ad insegnare riguarda non la trasmissione di una dottrina ma una comunicazione di esperienze, una messa in pratica, te­stimoniale, del comandamento dell’agape. Dove mancasse quest’esercizio crollerebbe la Chiesa.

“Io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo”. Si rivela così la nuova modalità di relazione. Se lo statuto teologico dell’Ascensione è il ritorno del Figlio al Padre da cui proviene, ecco quale luogo sceglie Matteo per il Gesù che non si vedrà più nella carne: è con noi, l’Emmanuele, il Dio con noi dei profeti, confermato dall’angelo a Giuseppe al momento della nascita. Perché con noi, anzi in noi è già il luogo di Dio, più intimo a noi di noi stessi. Lo aveva già detto d’altronde parlando dell’esperienza co­munionale della preghiera: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. (Raffaela Comunità Kairòs).

CONCLUSIONE

La partenza di Gesù non è motivo di tristezza ma di esultan­za, poiché non è una fuga, ma una salita verso il trono di Dio. I fedeli non rimangono sprovvisti della sua assistenza, ma possono riceverla in piena forma dall’alto dei cieli. Il varco aperto da Gesù con l’ascensione non verrà più colmato (cfr. Gv 1,29; Eb 4,14).

Gesù sale al cielo ma si potrebbe dire solo «fisicamente», gli apo­stoli sono rimasti soli, ma apparentemente. Di fatto egli è sempre «al di sopra» della comunità; vi è appena una nube che lo divide, ma essa è pronta a squarciarsi ogni qual volta sarà necessario nel­l’interesse del vangelo e del regno. Egli «tornerà», così, con la stessa faci­lità con cui è salito, affermano i testimoni.

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