
01 Ott Traccia di omelia della 27a domenica del tempo ordinario (anno A) – 08 ottobre 2023 –
I VIGNAIOLI DI CUI DIO HA BISOGNO
(Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43)
Il tema delle «Letture» è quello della vigna, immagine della comunità israelitica e simbolo, per Gesù, del regno di Dio. La vite insieme all’olivo è il segno delle benedizioni messianiche (cfr. Am 9,13; Is 33,1; Os 2,24; Gl 2,19). Nessuna meraviglia che possa servire a segnalare la vitalità del popolo della salvezza. Israele è come una vigna che Dio ha piantato, ha protetto e ha difeso dalle intemperie, deve rispondere perciò alle cure prodigate verso di lei.
La vigna-comunità è una piantagione divina, ma può accadere che qualcuno se l’appropri o ne monopolizzi la gestione. I coloni- padroni sono tutti coloro che operano nella comunità da «signori» invece che da «servi», costringendo i propri fratelli al loro arbitrio, invece che subordinare i propri interessi ai loro.
Prima lettura «Possedere una vigna» (Is 5,1)
Il profeta in veste di vignaiolo scioglie un inno di lode al suo «amico» e all’amore che egli ha per la propria vigna. Per essa ha scelto il miglior terreno, l’ha dissodato (v. 1) e alla fine ha piantato i migliori vitigni. In attesa della maturazione delle uve ha costruito al centro una capanna, con i torchi, una torre per vegliare sui ladri, ma è stato tutto inutile, poiché i frutti non sono venuti.
La «vigna del Signore è il popolo d’Israele», afferma il profeta per togliere ogni equivoco. Iddio ha creato anche le piante e gli animali, ma in questa parabola viene celebrato il suo amore per il proprio popolo, per gli uomini in genere. Egli li chiama all’esistenza per un atto della sua insondabile carità, come ha scelto Israele affinché facesse risplendere tra le genti il suo «nome» (la sua realtà), ma le sue attese sono state frustrate. La vigna ha prodotto uva acerba. Difatti gli Israeliti calpestano il diritto e la giustizia, opprimono i poveri, i deboli, uccidono persone innocenti. L’attacco è rivolto a tutti indistintamente, ma in modo particolare alle classi dominanti, ai giudici, ai proprietari terrieri (cfr. vv. 8-12).
Il profeta dell’amore di Jahve (v. 1) diventa anche il banditore della sua ira vendicativa che si abbatterà inesorabile sul suo popolo (vv. 5-6; 13-16), ma le sue predizioni sono troppo catastrofiche, per essere ritenute annunzi di salvezza. Anche quando l’uomo non risponde alle sue attese, Dio non cessa di amarlo. Quando il profeta diventa teologo divulga le sue concezioni più che ripetere comunicazioni superiori.
Seconda lettura «Il Dio della pace» (Fil 4, 9)
La comunità di Filippi (Macedonia) è per Paolo tra le più «care» e «amate» (4,1). I suoi componenti sono un modello di «bontà» per tutti i cristiani della Grecia. L’apostolo può solo ricordar loro la gioia che scaturisce dalla comune fede nella venuta imminente del Signore (4, 4). I turbamenti nascono dall’affannosa preoccupazione dei beni materiali, ma Dio pur senza esserne richiesto li accorda a tutti gli esseri che ha creato (cfr. Mt 6,25-34). Più che affannarsi e piangere, è sufficiente far presente a lui la propria situazione, con «richieste, preghiere e suppliche, rendimenti di grazie». Paolo come tutti gli uomini del tempo crede all’efficacia assoluta della preghiera di domanda, alla metamorfosi che essa è in grado di operare soprattutto nell’animo dell’orante.
La «pace» non si riferisce solo ai rapporti con gli altri ma anche alla comprensione del disegno di Dio in cui ogni contraddizione che si riscontra nella storia è destinata a cadere. È la contropartita alle ansietà e angosce dell’esistenza terrena. Nulla è estraneo al cristiano se non è estraneo a Dio, alla giustizia, alla virtù, all’amore (4,8). L’invito (all’atarassia) veniva anche da maestri dell’epoca (soprattutto dagli stoici), ma Paolo fa appello al suo insegnamento e soprattutto a quanto ha testimoniato in mezzo a loro con la sua vita.
Vangelo «A ritirare il raccolto» (Mt 21,34)
(Per l’approfondimento cfr. https://dehonianiandria.it/lectio/)
L’immagine della «vigna» designa anche qui la comunità credente non in quanto tale, ma in quanto depositaria della parola di salvezza. La cura, l’attenzione che Dio ha per il suo popolo non è rivolta alle sue vicende terrene, ma alla missione che ha da svolgere nella storia umana. La salvezza è una «piantagione» destinata a crescere. Gli Israeliti ne sono i primi custodi ma non gli esclusivi destinatari. Dio ha avviato l’opera nelle più fauste condizioni, ora aspetta che i suoi collaboratori la portino avanti. Egli non se n’è andato, si è solo eclissato per far spazio ai «coloni». Solo di tanto in tanto invia qualche suo messaggero per far presente i loro doveri e i suoi diritti.
La storia d’Israele è una costante contesa tra Jahvé e il suo popolo. Il primo attende che il popolo cresca nelle vie del bene, della verità e della giustizia, Israele è invece refrattario a siffatti richiami, addirittura ribelle. Nella sua insensata ira si scaglia persino contro gli stessi portaparola di Dio (i profeti), fino a malmenarli, lapidarli, ucciderli. L’Israele secondo la carne combatte contro l’Israele di Dio, fino a sopraffarlo. Nell’arco della storia della salvezza i profeti sono inviati a schiere, ma hanno tutti la stessa sorte. Le vicende del profetismo (ebraico) non sono state sempre così tragiche ma il parabolista non è uno storico bensì un pastore d’anime e al suo assunto fanno più al caso le generalizzazioni, i quadri foschi, che le notizie precise.
L’amore del padrone e la nequizia dei coloni trovano il loro culmine nell’invio e nel rigetto del «figlio» o erede. Da parte di Dio l’estremo segno della sua bontà è l’ultimo tentativo per portare i coloni al ravvedimento. Il messia infatti chiude la storia dei profeti, semplici servi, e apre l’era del figlio, destinato a scoprire nuovi, impensati rapporti tra l’uomo e il suo creatore. La fine di Cristo è raccontata quasi in termini di cronaca (v. 39). I vignaioli (ossia i Giudei) nel loro tentativo di appropriarsi dell’eredità tradiscono il desiderio di volgere a proprio conto i benefici della salvezza, come trapelava già nella parabola di Mt 20, 12, ma l’apparente vittoria si tramuta subito in una irreparabile disfatta, che l’autore fa pronunciare ai suoi uditori, che sono i figli, cioè i discendenti dei coloni stessi, i quali emettono così anche la sentenza della loro condanna.
CONCLUSIONE
La pietra (Cristo) che i costruttori dell’ultima ora avevano accantonato è quella su cui è stata invece posta alla base dell’edificio ecclesiale. La consegna della vigna (regno) ad altri operai è già avvenuta e non a caso, ma per espresso volere di Dio (v. 42).
L’intento pastorale del racconto riaffiora chiaro: la mira del padrone della vigna, tutta la ragione delle sue cure e del suo impegno come della sostituzione dei coloni, è il conseguimento dei frutti (vv. 34.41.43). La salvezza si instaura e avanza solo attraverso le operazioni di bene (cfr. Mt 25,31-46).
Matteo racconta le fasi della storia israelitica, ai membri della sua comunità, invitandoli a raccogliere la lezione che da essa promana. Tutto si può ripetere anche con loro: l’allontanamento dalla linea della salvezza e le conseguenti calamità temporali toccate al popolo una volta eletto.
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