Traccia di omelia della 3a domenica di Avvento (anno B) – 17 dicembre 2023

Traccia di omelia della 3a domenica di Avvento (anno B) – 17 dicembre 2023

I DESTINATARI DELLA PROMESSA

(Is 61,1-2.10-11; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28)

 

La salvezza è rivolta a tutti gli uomini ma ne beneficiano parti­colarmente gli umili, i poveri, i semplici perché ne avvertono mag­giormente il bisogno e non frappongono ostacoli alla sua accoglienza. L’«evangelista» (= «an­nunciatore di buone notizie») che leva la voce in Is 60-62 è il loro profeta; il banditore della liberazione escatologi­ca che «seguirà» la fine della schia­vitù babilonese, aprendo un’era di equità e di pace senza eguali.

I fedeli di Tessalonica vengono anch’essi da uno stato di schiavi­tù (verso «gli idoli»: 1,9), ma sono diventati amici di Dio, familiari di Cristo, fratelli tra di loro. Occorre che anche la loro vita si intoni alla nuova condizione.

Il Battista, nel quarto vangelo, ha perso ogni allaccio genealogi­co. Ciò che conta è la sua funzione nel piano di Dio, la sua missione che è quella di annunziare la venuta del salvatore e di preparare gli uomini ad accoglierlo. Il suo compito non è ancora al termine; esso non si esaurirà mai fin tanto che vi è qualcuno che soffre sotto le an­gosce del peccato, ma anche sotto le angherie dei propri simili, per questo egli «parla» ancora; anzi deve par­lare.

Prima lettura «L’anno di grazia» (Is 61,2)

La restaurazione postesilica tarda a dare i suoi frutti. Le pro­messe profetiche non trovano ancora attuazione. Il «portatore di buone notizie» a Sion (Is 40,9) sembra essersi ingannato; le sue parole rimangono lettera morta, tut­tavia le speranze israelitiche non si sono spente. Un nuovo messaggero torna a riconfermarne l’imminente attuazione. Non è una «voce» qualsiasi (40,3), ma lo stesso Spirito di Jahve (60,1) che si impegna a portare a compi­mento la liberazione di quanti sono ancora nelle angustie di una nuova prigionia, quindi nel dolore, nel lutto. Gli uomini non sa­ranno abbandonati alla loro sorte, ma si leverà per tutti il giorno della «salvezza» (v. 10). Finalmente saranno liberi e vittoriosi (la «corona»), felici ed esultanti; sperimenteranno in tutto il suo fa­scino la fedeltà e la benevolenza («giustizia») di Dio.

La «trasformazione» sembra essere già in atto e il profeta ha davanti agli occhi il quadro luminoso della comunità escatolo­gica che cancella tutte le ombre che si erano accumulate sull’Israe­le storico. La profezia rende vivo e palpitante il futuro, idealizza, trasfigura la realtà presente. La schiava delle nazioni (cfr. Lam 1,1) è di fatto la sposa di Jahvé; un giorno apparirà, anzi già appare rivestita dei suoi splendori (vv. 10-11). Tutto il suo fascino sca­tu­risce non dai successi temporali, ma dal ricupero dell’amicizia con il suo Dio, il suo sposo di sempre ma troppo spesso tradito e di­menticato. Ora il connubio (alleanza) è stato rinsaldato ed Israele torna ad essere ancora una volta la regina («diadema») dei popoli e la sua terra un «giardino», quasi un restaurato paradiso.

La Bibbia non è il libro degli annali dei re di Giuda o d’Israe­le, ma della storia umana di Dio. La «sovranità» israelitica non nasce dai successi dei suoi eserciti, ma dalla santità del suo popo­lo, dalla giustizia che rifiorirà in mezzo ai suoi componenti. Sono solo questi i dati da cui arriverà il suo vanto (la «lode») presso i popoli della terra.

Il prestigio d’Israele e di quanti intendono far propria la sua missione è solo spirituale. Ogni altra aspirazione è abusiva perché è più faraonica o diabo­lica che divina, preciseranno gli evangelisti (cfr. Mt 4,8-10).

Seconda lettura «Non spegnete lo Spirito» (1Ts 5,19)

La comunità di Tessalonica è agli inizi della sua esperienza cristiana; non manca di prove esteriori (persecuzioni: 1,6; 3,3-4) e di angustie per la sorte dei propri congiunti (4,13). Paolo aveva dovuto abbandonare improvvisa­mente i neoconvertiti a motivo di un attacco giudaico (At 17,5-10; 1Ts 2,17-3,5), ma le buone noti­zie (il «lieto messaggio»: euanghelisamenon 3,6) re­cate da Timo­teo avevano rasserenato il suo animo, I Tessalonicesi sono saldi nella loro fede (3,6), anche se rivelano incertezze nei loro comportamenti (4,1-12), hanno qualche preoccupazione sulla parusia o venuta del Signore (4,13-5,8) e qualche problema nei rapporti comunitari: una situazione che si poteva ritenere ideale. I piccoli inconvenienti erano inevitabili all’inizio di un’esperienza radicalmente nuova in cui i destinatari si erano avventurati. Tutto poteva essere comprensi­bile, ma quello che l’apostolo non ammette è che il cristiano si la­sci prendere dall’afflizione o dalla paura.

La gioia deve essere la caratteristica del credente, il segno elo­quente e con­vincente del suo rapporto con Dio, con la verità. Può trovarsi anch’egli in difficoltà, ma sa a chi rivolgersi (nella pre­ghiera) e una volta che ha segna­lato il suo caso a chi di dovere può restarsene tranquillo sapendo che tutto quello che poi accade è vo­luto da Dio. La «pace» interiore nasce da queste certezze e da esse proviene anche la fiducia con cui il cristiano si muove incon­tro al Signore che viene (4,15).

Paolo non è tanto uno psicologo quanto un teologo, per que­sto cerca di ri­solvere le reazioni sfavorevoli che si accumulano nel­l’animo umano con una risposta di fede, ma non è sempre suffi­ciente ad eliminare le inquietudini interiori dell’uomo. Si tratta di livelli, quello della fede e della realtà psico­logica, che non inter­feriscono tra di loro, ma per l’apostolo uno può cancel­lare l’altro, la fede può eliminare i turbamenti della mente e del cuore. Al­me­no lo si può augurare.

L’esperienza cristiana è singolare; prima che a Corinto anche a Tessalonica si sono affacciati i carismatici, gli uomini dello Spi­rito, coloro che parlano o recitano sotto l’influsso di una forza su­periore, divina. Non sempre ap­paiono forse convincenti (cfr. At 2,15; 1Cor 14), ma per l’apostolo sono sempre segnalazioni, pro­poste, messaggi da raccogliere, caso mai da va­gliare per ritenere ciò che vi può essere di «buono».

Lo Spirito parla attraverso tutte le vie che non sono quelle della vanagloria o dell’arroganza. Egli è l’anima della chiesa ed ha sempre qualcosa di im­portante da farle pervenire, per questo l’a­postolo raccomanda di essere suoi fedeli ascoltatori.

Vangelo «Un uomo mandato da Dio» (Gv 1,6)

(Per l’approfondimento cfr. https://dehonianiandria.it/lectio/)

La nascita di Gesù non ha avuto precursori così immediati; la sua manife­stazione profetica è stata invece preceduta da un mo­vimento spirituale gui­dato da un predicatore di penitenza, che forse senza saperlo o intenderlo è diventato il «precursore messianico» per antonomasia. L’oracolo di Is 61,1, infatti, per la tradizione cristiana si è attuato prima in lui che nel Cristo.

Quando il quarto evangelista scrive, la figura di Giovanni ave­va perso i suoi contorni ambientali e cronistorici ed era rimasta chiara solo la sua missione. La sua persona si confonde e si riassu­me in essa. Non ci possono essere perciò dubbi sulla sua vocazio­ne; essa è stata delineata e segnalata da Dio stesso: fungere da ga­rante («testimone») al messia; additare agli uomini la sua perso­na, preannunziare i suoi compiti.

Il Cristo farà anche lui un’autopresentazione o apologia, ma almeno al suo apparire uno doveva incaricarsi o essere incaricato di segnalarlo a quanti non lo conoscevano. In realtà neanche Gio­vanni sapeva chi fosse l’atteso salvatore (cfr. Mt 11,2) ma ne ha una prima intuizione o segnalazione nel giorno in cui il messia vie­ne a sottoporsi al suo battesimo (Gv 1,33-34). Ora può annunziarlo anche agli altri, particolarmente ai suoi discepoli.

La «testimonianza» di Giovanni nei confronti di Gesù poteva essere conte­stata, ma egli è certo di se stesso, almeno dell’impossibile identificazione della sua persona con l’atteso liberatore d’Israele. Quando Giovanni svolge la sua attività, annunzia l’imminente giudi­zio di Dio e amministra il batte­simo di penitenza, la sua identità non era forse chiara, tanto che anche dopo la sua morte i suoi discepoli continueranno a riferirsi a lui (cfr. At 19,3) e Matteo si sentirà in do­vere di inserire un dialogo chiarificatore tra Gesù e il precursore (3,14-15) prima del battesimo (3,14-15), ma quando il quarto evan­gelista scrive, verso la fine del I secolo, le divergenze o difficoltà era­no appianate. Gesù di Nazaret era il messia e Giovanni solo un suo predeces­sore, il più grande di tutti essi, dirà Matteo (11,11). L’ener­gica protesta che l’evangelista pone sulla sua bocca davanti alle inter­rogazioni che gli pon­gono le autorità di Gerusalemme è soprattut­to una risposta alle eventuali rivendicazioni presenti nella chiesa più che nella comunità giudaica ormai inesistente o inoffensiva.

CONCLUSIONE

Giovanni non è il punto di convergenza delle moltitudini che vengono a lui nel deserto, ma l’intermediario per arrivare a Cri­sto, la vera, unica meta del credente, poiché è solo lui la via costi­tuita da Dio per accedere alla salvezza (Gv 14,4). Un richiamo che non cade mai inopportuno. I giudei percorre­vano mari e monti per fare un proselito, ma per quanto faticosa potesse es­sere la loro im­presa era una fatica vana (cfr. Mt 23,15). Anche l’attività pa­sto­rale del cristiano potrebbe esser compiuta più per la gloria degli uomini che per l’instaurazione del regno di Dio.

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