PER UNA ECONOMIA “DISARMATA”

PER UNA ECONOMIA “DISARMATA”

Oggi girano investimenti di mille miliardi di dollari a sostegno dell’industria bellica

“La guerra alimenterà se stessa”: questa frase dello storico latino Tito Livio risulta particolarmente attuale, in un’epoca in cui il proliferare delle guerre nel mondo innesca una spirale, apparentemente inevitabile, di aumento delle spese militari. Tuttavia, sostiene Anna Fasano di Banca Etica, non pos­siamo porre tutto sul tavolo, nello stesso modo, come se la salute, la sanità e le armi avessero uguale valore: non tutto è bene di mercato: ci sono dei beni che vanno tutelati e non vanno conse­gnati ad un mercato finanziario che in questo momento ha solo la logica della massimizzazione del profitto.

I dati

Oggi, si parla di oltre 959 miliardi di dollari destinati, dalle istituzioni finanziarie, a supportare la pro­duzione e il commercio di armi. Di questi investimenti, più della metà, oltre 500 miliardi di dollari, arriva dagli Stati Uniti. E sono tutte statunitensi le 12 istituzioni finanziarie che più investono nella produzione di armi: una classifica, si dice nel settore, guidata, con 92 miliardi di dollari, dal gruppo Vanguard. Le 15 maggiori banche europee, dal canto loro, hanno investito, in aziende produttrici di armi, un importo pari a 87,72 miliardi di euro. Un trend non dissimile a quello asiatico, mentre, tra le prime 100 istituzioni finanziarie, ad alimentare l’industria bellica non figurano investitori dall’Africa o dall’America Latina. Fra i dieci titoli mondiali, che hanno registrato i maggiori progressi da inizio 2024, sembra ci siano il produttore tedesco di munizioni Rheinmetall e l’azienda norvegese Kong­sberg.

Questi dati sono preoccupanti, considerando che, nel 2023, la spesa globale per la difesa ha rag­giunto la cifra record di 2,2 trilioni di dollari, con un aumento del 9%.

Va detto, aggiunge Anna Fasano, che le informazioni, rispetto alla produzione e al commercio, non sono facilmente reperibili. Purtroppo, il sistema degli armamenti e interventi militari si avvale di canali di finanziamento pubblici e privati poco noti e sui quali, anche in Italia, il controllo degli organi pre­posti, a cominciare dal Parlamento, è spesso superficiale. 

In tale scenario, il settore finanziario è molto attivo: tra il 2020 e il 2022 ha sostenuto l’industria della difesa con almeno 1.000 miliardi di dollari. E la tendenza si è ulteriormente acuita con lo scoppio delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Tali guerre si vanno ad aggiungere ai tanti conflitti, più o meno “dimenticati”, che si trascinano dal Sudan al Myanmar, solo per citarne alcuni tra i più sangui­nosi.

Questi conflitti hanno ulteriormente alimentato il valore delle azioni delle imprese produttrici di armi, portando a una corsa, senza precedenti, verso gli armamenti e facendo salire, alle stelle, il valore delle azioni delle imprese produttrici di armi. La militarizzazione è diventata la forma dominante dell’economia, della governance e della cultura.

La campagna, contro il terrorismo di Al-Quaida, è servita per giustificare la guerra contro l’Afghani­stan. Poi è stato il turno dell’Iraq e i segnali indicano già che l’Iran, la Siria ed altri diventeranno nuovi possibili bersagli di questa nuova forma di guerra, che non ha un nemico dichiarato e che non è limitata nello spazio e nel tempo. Si tratta di una guerra senza limiti, perché affonda le sue radici in un’economia che non rispetta vincoli, ecologici ed etici, e non accetta limitazioni: si tratta di una guerra aperta che minaccia di diventare infinita.

Purtroppo “La finanza soffoca l’economia reale”, osservava nel 2015 Papa Francesco nell’enci­clica Laudato si; e nell’ambito della produzione degli armamenti, si ricorre, con troppa facilità, ad enfatizzare e sopravvalutare il suo impatto economico e occupazionale.

Il caso Albania

L’Albania, entrata nella Nato insieme alla Croazia nell’aprile 2009, nei mesi scorsi, ha rilanciato tre impianti di produzioni di armi e munizioni. Con questa mossa, il governo albanese, in collaborazione con la Nato Support and Procurement Agency, si unisce a un numero sempre più alto di Paesi eu­ropei, che stanno intensificando gli sforzi per aumentare la produzione di munizioni, in seguito all’in­vasione Russa dell’Ucraina.

A tale iniziativa, si aggiunge l’inaugurazione ufficiale della base aerea di Kuchova, trasformata in un centro modernissimo per le future operazioni aeree della NATO. La base aerea si trova a 80 chilo­metri a sud della capitale albanese e, in passato, ospitava un aeroporto militare sovietico. La NATO, per rafforzare la sua presenza nella regione, ha speso, per questa base aerea, più di 50 milioni di euro. Per celebrarne l’apertura, sono arrivati due jet da combattimento della NATO da Aviano. La cerimonia si è conclusa con una demo di due Eurofighter italiani, provenienti da Gioia del Colle, di due F-16C americani di Aviano e di due elicotteri UH-60 BlackHawk albanesi. La base NATO di Kuçovo ospita anche i tre nuovissimi droni turchi Bayraktar TB-2, appena consegnati all’Albania.

Cosa significa “economia di guerra”

L’economia di guerra è l’adeguamento, di un intero sistema produttivo nazionale, allo sforzo bellico. La definizione, piuttosto ampia, riguarda diversi aspetti, che vanno dall’industria all’energia, fino alla composizione della spesa e dei consumi. Il tutto si ripercuote sull’aumento del deficit pubblico per finanziare il riarmo, nella spinta inflazionistica a danno dei salari, nel rallentamento economico e nel razionamento dell’energia. Il conflitto russo-ucraino ha già avuto questo impatto, riportando all’atten­zione un clima che non si avvertiva da più di settant’anni.

Mario Draghi, durante la sua presidenza del consiglio, in un convegno, disse con chiarezza: “Non siamo ancora in un’economia di guerra”, ma è necessario prepararsi. Invece, Stefano Manzocchi, docente di economia internazionale, in un’intervista a La Repubblica, ha parlato di “un’economia delle scorte, più che di un’economia di guerra”. Nel caso della Russia, la gestione dell’energia ne è l’emblema: l’Italia – come altri Paesi – ha accelerato il processo di affrancamento dal gas proveniente da Mosca.

A oggi, il PIL europeo ha già subito una frenata: dal 4,2% previsto prima del conflitto, la BCE arriva – nello scenario più cupo – a indicare una crescita del 2,3%. Cioè due punti percentuali in meno. Un dato preoccupante, se combinato con l’aumento dei prezzi. Si sta, quindi, concretizzando il rischio della cosiddetta economia stagnante e di forte inflazione. Una miscela che potrebbe pesare su intere filiere, imprese e famiglie. Tutto questo porta a pensare che la mobilitazione delle finanze pubbliche, per il rilancio della spesa militare, è già in corso. I dati World Bank indicano che, nell’ultimo decennio, l’Unione europea ha accresciuto la spesa per armamenti di quasi un quarto, e l’Italia è andata oltre, con aumenti superiori al 25%.

Il dibattito sulle possibili alternative, a un mondo militarizzato, è sempre aperto. Sono in molti a so­stenere che non ha senso spiegare, a chi detiene il potere, che il disarmo e la conversione sarebbero più convenienti per il mondo. Lo si sapeva già molto tempo fa e, proprio per questo, si è imboccata la direzione opposta.

Occorre “disarmare” la finanza

Un’analisi, condotta dall’International Peace Bureau, traduce il costo di specifici armamenti in beni e servizi sanitari e mostra come una fregata multiruolo europea (FREMM) valga lo stipendio di 10.662 medici all’anno (media dei Paesi OCSE), un aereo da caccia F-35 equivalga a 3.244 posti letto di terapia intensiva e un sottomarino nucleare di classe Virginia costi quanto 9.180 ambulanze. La metà dei fondi stanziati dai governi, a livello globale, per le forze armate sarebbe sufficiente per fornire assistenza sanitaria di base a tutti gli abitanti del pianeta e per ridurre, significativamente, le emissioni di gas serra.

Una economia di pace” non si esaurisce nella denuncia della guerra. La nuova geografia economica internazionale necessita di istituzioni politiche coerenti, capaci di delineare un orizzonte plausibile, fondato su relazioni economiche e sociali multipolari. 

Oggi, l’esclusione del settore degli armamenti è comune a molti fondi di investimento, che si defini­scono “sostenibili” e adottano “criteri di esclusione”, decidendo, cioè, di scartare alcuni settori per ragioni etiche: la maggior parte dei fondi esclude soltanto le armi “controverse”, cioè le mine an­tiuomo, le bombe a grappolo, le armi chimiche e biologiche. Questi tipi di armi, d’altra parte, sono già vietate da molteplici legislazioni. Alcuni investitori estendono questo divieto anche alle aziende che producono armi nucleari, armi all’uranio impoverito e fosforo bianco. L’ultimo ambito di esclu­sione riguarda le aziende produttrici di equipaggiamenti e servizi militari che comprendono armi, forniture militari ed equipaggiamenti, potenzialmente utilizzabili per scopi militari, compreso il soft­ware usato dagli eserciti.

In occasione della scorsa tornata elettorale di giugno, per il rinnovo del Parlamento Europeo, con lo slogan “Cambiare la finanza per cambiare l’Europa”, è stata lanciata una serie di proposte ai candi­dati sul fronte finanziario, riguardante piccole modifiche normative per trasformare l’industria finan­ziaria in un motore per un’economia di pace, per la transizione ecologica e lo sviluppo dell’economia sociale. Coniugare princìpi etici e performance finanziarie è possibile e la decennale esperienza della finanza etica in Europa lo dimostra.

L’Europa dichiara di voler sostenere l’accesso al credito per le imprese sociali, ma, al momento, resta bloccato da normative Ue che sembrano pensate, per lo più, per sostenere le grandi imprese e le multinazionali. Banca Etica parla da soggetto ben informato sulla materia: “È opportuno smettere di penalizzare le banche impegnate nel sostegno delle organizzazioni e delle imprese dedite alla promozione dell’inclusione sociale”. Le imprese dell’economia sociale sono, spesso, classificate ad alto rischio e, per questo, sottoposte a un assorbimento di capitale del 100%, nonostante il mondo sociale abbia ampiamente dimostrato solidità e affidabilità.

a cura della Redazione di Presenza Cristiana

(cfr. Presenza Cristiana 4/2024)

Nessun Commento

Sorry, the comment form is closed at this time.