
16 Mar Proposta di omelia per la Terza Domenica di Quaresima anno C (23 marzo)
LA PAZIENZA DI DIO
(Es 3,1-8b.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9)
La quaresima è sempre tempo di prova e di conversione. Mosè ricorda la più grande esperienza a cui può andare incontro un uomo, quella di Dio. Egli lo sente misterioso ma vicino, inserito nella storia degli uomini fino a prendersi cura di umili oppressi e a portarli fuori della loro indegna esistenza.
Il popolo dell’esodo avanza sotto i riflessi di una straordinaria luce che illuminerà ogni loro passo, ma non è tale da preservarli da deviazioni ed errori che saranno duramente puniti.
Il discorso di Gesù si fa ancor più minaccioso. Se manca il pentimento si fa strada l’ira di Dio fino alla distruzione. Ma per fortuna l’evangelista lascia aperta una speranza. Alla fine Dio è disposto a pazientare e a contrattare con l’uomo che pecca.
Prima lettura «Sono sceso a liberarlo» (Es 3,8)
Il brano di Es 3,1-8 è il primo capitolo di una teologia della liberazione. Iddio è nei cieli, ma non tanto lontano da non accorgersi delle ingiustizie che si perpetrano tra gli uomini e, di tanto in tanto, scende a rimettere l’ordine che i suoi collaboratori umani hanno turbato. Egli vive in un mondo inavvicinabile, il suo volto neanche può essere intravvisto dall’uomo, ma la sua voce può giungere egualmente fino a lui. Questa volta non viene a chiedere il rispetto per il suo nome, ma per il suo popolo oppresso e angariato da tiranni.
Un popolo vive nella miseria, grida sotto la sferza degli aguzzini, ma è una situazione che egli è deciso a cambiare. Mosè dovrà essere il portatore del suo messaggio e della sua speranza, il condottiero del popolo quando si muoverà dalla terra della schiavitù. Questa pagina, che non si rilegge e non si medita mai a sufficienza per comprendere il disegno di Dio nella storia, sembra, se non cancellata, ridimensionata dalle due che seguono (II e III lettura).
Seconda lettura «Scritte per nostro ammonimento» (1Cor 10,11)
Paolo tenta una rilettura parenetica della storia biblica. L’esperienza che l’intero popolo fa di Dio, dei suoi attestati di bontà non produce in tutti gli stessi benefici ed effetti sperati. Israele non ha risposto ai richiami di Mose, alla voce di Dio: perciò a causa della sua disobbedienza, è stato punito nel deserto.
La teologia è sempre una chiave di lettura troppo facile degli eventi storici. La generazione dell’esodo è perita nel deserto perché vi si è trattenuta troppo a lungo; e vi si è trattenuta perché non sufficientemente equipaggiata per tentare la conquista della «terra». Ma per l’autore sacro essa, che era stata sottratta miracolosamente dal potere del faraone, poteva essere condotta dallo stesso Jahvè nel paese di Canaan: se ciò non è avvenuto ci deve essere stata qualche colpa che ha fatto demeritare il favore. Per il teologo ebraico Dio è il motore assoluto della storia e tutto ciò che accade è opera sua. Un’affermazione che non si può sottoscrivere senza contemporaneamente far ricadere su di lui tutte le barbarie che gli uomini hanno compiuto e compiono, anche quelle operate in suo nome.
Dio guida gli uomini verso il loro destino, ma non si sostituisce ad alcuno di loro.
Vangelo «Lascialo ancora» (Lc 13,8)
(Per l’approfondimento cfr. https://dehonianiandria.it/lectio/)
Il brano di Luca (13,1-5) non sembra far parte delle «buone notizie» che gli uomini amano ascoltare o attendono; tanto meno sembra una pagina di vangelo. Al di sopra degli eventi umani non vi è un padre, come Gesù si è sforzato sempre di annunziare, ma un «padrone», quasi un despota che dirige a bacchetta la vita dei suoi sudditi ed esige immediato ascolto sotto la minaccia di severe sanzioni.
Il massacro, compiuto da Pilato, di mescolare sangue umano a quello delle vittime dei sacrifici è commentato da Gesù con un richiamo ancor più sconcertante. Sembra che Pilato sia un giustiziere di Dio e abbia trucidato quei cittadini galilei o gerosolimitani perché rei di qualche «colpa». Gesù non attenua il principio corrente che i peccati attirano l’ira di Dio sugli uomini e le catastrofi sono provocate dalle colpe morali di cui essi si macchiano. Non lo attenua ma conferma, anzi lo estende. Non sempre sono puniti per primi i grossi peccatori, ma c’è sempre una punizione collegata con la colpa. Tutti pertanto, perché nessuno è senza peccato, vivono sotto tale minaccia e, come se non fosse stata chiara abbastanza, viene inequivocabilmente ribadita: «Se non vi convertirete, allo stesso modo perirete».
Fortunatamente il triste quadro, anche se non completamente, è cancellato dalla seconda tavola del dittico. Il vignaiolo è l’avvocato della povera umanità peccatrice, il profeta che si interpone presso Dio a ricordargli quello che sembra aver dimenticato nella prima indiretta comparsa: la misericordia. E anche se lentamente e non in maniera piena, questa si fa strada e si afferma nell’atto di grazia che Gesù compie verso la donna paralitica.
Conclusione
Se nei Vangeli ci sono sprazzi di predicazione «terroristica», può darsi che il testo di Lc 13,1-5 sia uno di questi, a cui si può aggiungere anche il brano della 1Cor 10,5.
Il credente ha bisogno di essere richiamato anche al timore di Dio, ma Gesù si è adoperato a far sapere che Dio è un amico, solo un amico dell’uomo, pronto a condonargli somme ingenti (Mt 18,27), ad accordargli sempre la sua benevolenza e il suo perdono. Per Luca, egli è il padre del figliol prodigo, che non si è mai contrapposto all’arroganza del secondogenito e che lo riaccoglie senza pretendere ammende di nessun genere. Non sempre, forse, gli autori evangelici hanno colto lo spirito e la novità cristiana.
Anche quando l’uomo è peccatore, un grande peccatore, ha diritto di sapere che al di sopra di sé non vi è un giudice severo e inappellabile, con l’arma spianata per punirlo, ma sempre un padre con le braccia aperte, pronto ad accoglierlo. Perché egli è Dio e non un uomo, direbbe il profeta (Os 11,9).
Sorry, the comment form is closed at this time.