Proposta di omelia per la 5a Domenica di Pasqua (18 maggio)

Proposta di omelia per la 5a Domenica di Pasqua (18 maggio)

IL NUOVO ORDINAMENTO 

(At 14,21b-27; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35)

La salvezza cristiana oscilla tra il tempo (Atti) e l’eternità (Apoca­lisse). Il cammino nella storia è lento, faticoso, irto di difficoltà (la cro­ce); la dimensione ultima è però radiosa, folgorante.

Gesù morendo è uscito dalla storia, ha fatto il suo ingresso nella vita definitiva. Si è sottratto ai suoi, ma il tempo della separazione è breve; pre­sto essi lo rivedranno e la strada per incontrarsi è quella che egli ha percorso e lasciato in consegna a quanti hanno creduto alla sua parola (II lettura).

 

Prima lettura «Rianimare i discepoli» (At 14,22)

I missionari evangelici sono gli inviati dello Spirito (At 13,2), gli incaricati della parola di Dio (At 14,25) incentrata in Gesù Cri­sto, morto e risorto per la salvezza degli uomini (13,26-39). Paolo e Barnaba hanno cercato di portare la lieta novella in alcune città del­l’Asia Minore (At 13,13-14,21); hanno gettato il seme che anche la­sciato a se stesso, dovrebbe fruttificare (cfr. Mc 4,27), ma essi si preoc­cupano di attendere egualmente alla sua crescita.

Gli apostoli sono dei catechisti, dei pastori. Debbono informare, ma anche ricordare le cose già dette, tener desta l’attenzione, rievo­care i buoni propositi. Tutta un’opera che l’autore chiama opportu­namente «animazione». Paolo si è comportato in mezzo ai suoi co­me un «padre» e come una «madre», pieni di sollecitudine per i propri «figli» (cfr. 1Ts 2,7,11). I missionari non sono dei conqui­statori, ma dei fratelli che vengono a condividere con i propri simili la «grazia» che è stata loro accordata.

La spedizione missionaria era partita da Antiochia e ad Antio­chia fa ritorno. È stata la comunità che ha inviato Paolo e Barnaba ed è alla comunità che al termine del loro viaggio si rapportano. Que­sta non è spettatrice passiva dell’attività apo­stolica, ma la prima di­retta responsabile della medesima. Infatti è essa che viene radunata ed è ad essa, non a particolari funzionari, che viene riferito tutto quello che il Signore aveva operato (v. 27).

La comunità è l’alveo in cui si manifestano e operano i carismi: un richiamo sempre attuale che i primi credenti lasciano ai loro fratelli nel tempo.

L’autore attribuisce a Paolo la costituzione dei «presbiteri» nelle comunità evangelizzate (v. 23), ma è una notizia anacroni­stica. Nelle sue Lettere Paolo non vi fa mai riferimento, neanche nella 1Cr dove sono segnalate tutte le possibili donazioni e manifestazioni dello spi­rito (cap. 12).

Seconda lettura «E tergerà ogni lacrima» (Ap 21,4)

L’Apocalisse apre, di tanto in tanto, uno spiraglio sul mondo fu­turo a quanti sono colpiti da afflizioni e lutti nell’esistenza presente. Nessuno sa cosa Dio ha preparato a coloro che lo amano, ricorda Paolo (1Cr 2,9) l’autore dell’Apocalisse sembra saperlo; è un mondo che non ha più nulla in comune con l’attuale. Il cielo con le sue stelle tra­ballanti o cadenti, la terra con i suoi triboli e spine (cfr. Gn 3,18), il mare sempre insidioso e pieno di mostri scompariranno per sem­pre. La stessa Gerusa­lemme, che pure era la città santa, il luogo della residenza di Dio sulla terra, cambierà volto, si ornerà come una spo­sa che va incontro al suo sposo (Jahvè). Ma la novità assoluta è che al suo centro non vi sarà più il tempio, ma il trono di Dio o Dio in persona a segnalare il rinnovamento radicale dei rapporti tra l’uomo e il creatore. Si vedrà Dio come egli è, ricordava Paolo (cfr. 1Cr 13,12). Egli signoreggerà nel cuore della città, conferma l’autore dell’Apoca­lisse, come un sovrano, meglio un padre attento a dare udienza a tut­ti i suoi figli e ad accogliere le loro richieste. La realtà umana e le sue eventuali relazioni con l’essere divino sono ancora da scoprire, assicura l’autore del libro dei segreti di Dio e della storia.

La vecchia Gerusalemme era diventata ormai un’alleata di Babilo­nia (Ap 14,8. 18,2); quella che la sostituirà verrà diretta­mente da Dio.

La salvezza ha dimensioni anche cosmiche. L’«universo», il cielo e la terra non rimarranno estranei al nuovo corso che la storia sta pren­dendo (cfr. Rom 8,18-22). Esso si rinnoverà radicalmente anche se nessuno sa quale sarà la sua ultima confi­gurazione. Il progetto inizia­le era stato disturbato dal peccato; ora che questo è stato cancellato ritroverà l’armonia perduta o che non ha mai conseguito.

Vangelo «Come vi ho amato io» (Gv 13,34)

(Per l’approfondimento cfr. https://dehonianiandria.it/lectio/)

Il testamento di Gesù consta di poche parole: «Amatevi gli uni gli altri», ma sconvolgenti. Esse mettono a soqquadro il vecchio ordinamento e ne instaurano un altro non basato sulla forza e neppure sul diritto, ma sul superamento di entrambi.

Gesù è per l’ultima volta con i suoi. Ha celebrato con loro la pasqua, con le note varianti al cerimoniale (lavanda dei piedi) e ha svelato loro il tradimento, più che il traditore, a cui va incontro. Giuda «esce» dal cenacolo ed egli si affretta a spiegare ai suoi il senso del gesto che il discepolo si accingeva a compiere. La morte che subirà sarà la via per la sua annunziata glorificazione. Non è che Giuda sia uno strumento della provvidenza di Dio, ma la sua azione avrà l’effetto contrario di quello che i suoi nemici si ripromettono.

Gesù annunzia il suo intimo rapporto con il Padre e con ciò segnala quello che il cristiano, o meglio l’uomo, è destinato ad avere con lui. La presenza divina è espressa con un termine chiave nella tradizione biblica: la «gloria (kabod, doxà) di Jahvè». Il Dio invisibile e inimmaginabile è stato ritratto dai profeti nel simbolo della luce, del fuoco, e quindi della nube luminosa che accompagnerà il popolo dall’uscita dall’Egitto per tutto il periodo della sua storia (cfr. Es 16,7,10; 40,38; Ez 8,4; 11,4,8). La «gloria» è pertanto il riflesso, o meglio il simbolo, della realtà divina, soprattutto della sua santità, quindi benevolenza verso l’uomo.

Nella pienezza dei tempi la «gloria» divina ha fatto la sua piena manifestazione in Gesù Cristo. C’è un’osmosi tra lui e Dio per cui nell’essere e nell’agire di uno (il figlio) si ritrova e si riflette l’altro (il Padre). Il figlio, perché tale, è colui che ha ricevuto la vita (gloria) dal Padre e, appunto perché si tratta di una comunicazione veritiera si ritrovano in lui i tratti e i comportamenti paterni. Nell’agire disinteressato di Gesù, gli uomini possono cogliere qualche tratto della sconfinata carità di Dio. Il modo di amare di Gesù è unico, tocca l’eroismo poiché raggiunge il massimo grado di donazione e di dedizione al bene altrui. Egli ha amato anche chi lo ha odiato, tradito, condannato, ucciso. Non c’è maggior amore di chi dà la vita per i suoi amici (Gv 15,13), ma ancor più quando la dà per i nemici.

La morte sembra compromettere tutta la missione di Gesù, ma questa si comprenderà alla luce della sua risurrezione, quando il «figlio dell’uomo» riceverà la «gloria» dell’unigenito del Padre (1,14). L’«ora» indica il momento culminante o conclusivo della sua azione salvifica: di sconfitta e di vittoria, di umiliazione e di esaltazione. Il principe di questo mondo ha una vittoria, ma apparente: alla fine egli sarà sconfitto.

L’esperienza di Gesù non si chiuderà sul Golgota, ma da qui pren­derà un nuovo singolare avvio. Manca poco alla cattura e alla morte di croce, ma è ugualmente breve lo spazio di tempo per conseguire la glorificazione (risurrezione).

Senza Cristo gli apostoli, i credenti sono come orfani; ma essi debbono essere convinti che c’è qualcuno che pensa a loro. Gesù è entrato nel mondo della gloria, ma continua a tenersi presente nel tempo tramite i suoi discepoli, attraverso i loro comportamenti che ripetono i suoi (13,15). Il Padre ha amato gli uomini e ha dato loro suo figlio (3,16); questi si è intera­mente votato alla loro causa: ne viene di conseguenza che i discepoli non hanno altra scelta che quella di donare la loro vita per il bene di tutti.

La carità è in Dio, in Cristo: non può non essere nel cristiano.

 Conclusione

Le tre «Letture» sono, si può dire, incentrate sulla comunità, presentata nella sua concretezza negli Atti (le comunità nascenti dell’Asia Minore), idealizzata nell’Apocalisse (la Gerusalemme celeste), nel suo dinamismo interno nel Vangelo.

La comunità di Antiochia non è un’accolta amorfa di credenti, ma un centro propulsore di vita cristiana. È lei che invia i missionari (At 13,2) e li accoglie al loro ritorno (14,27). La comunità è la responsabile e la protagonista dell’evangelizza­zione; ad essa, cioè a tutti i credenti, Gesù ha affidato la promulgazione e l’instaurazione del regno.

La chiesa è di Dio, di Cristo che la guida direttamente e tramite coloro che hanno accolto la sua parola, ereditato il suo messaggio. L’importante è mantenersi in contatto con lui, non lasciarsi sopraffare dalle voci che vengono dagli uomini.

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