
30 Mag L’ASCENSIONE TRA MITI ANGOSCIA E FEDE
Molti popoli dell’antichità hanno fregiato la vita dei loro eroi con la visione di un’ascensione al cielo. Così, i Greci credevano al rapimento in cielo dell’eroe solare Eracle, e i Romani credevano che il fondatore della città, Romolo, fosse salito al cielo tra lampi e tuoni nell’infuriare di un temporale.
Anche i cristiani credono all’ascensione di Cristo. Ma che cosa ha di determinante la figura di Gesù tanto da farla vedere seduta accanto a Dio? Che cosa viene considerato di tanto grande e maestoso in questa figura da vederla innalzarsi in cielo alla destra di Dio e dichiararla criterio e norma determinante della vita di ognuno?
I Romani, narrando la salita al cielo di Romolo, manifestavano la loro fede nel potere dei Cesari. Romolo, in quanto divinità, era per loro figura di stabilità dell’impero romano, e segno di superiorità del suo esercito. I Greci, narrando la salita al cielo di Eracle, credevano che i più grandi, i più vigorosi, i più forti sono chiamati a trasformarsi in “luce”, grazie alle loro azioni eroiche. I due popoli, quello greco e quello romano, insegnavano con questi loro miti, che, mediante azioni eroiche, gli esseri umani ottengono la possibilità di innalzarsi alla grandezza degli dèi.
La chiesa primitiva, quando accolse le immagini del mondo antico, nel racconto dell’ascensione del Crocifisso Risorto, creò l’immagine di un antieroe. Tutto ciò che Gesù aveva da dirci è scongiurarci di smettere di scalare con sforzi titanici la montagna del cielo e di collocarci con azioni erculee fra gli immortali e la loro gloria. Nelle sue immagini e parabole Gesù non cessava di raccomandarci e di considerare la nostra vita a misura umana. È proprio nella piccolezza della nostra esistenza terrestre che vive un pezzo dell’eternità divina; ciascuno di noi ha il diritto e la possibilità di attribuire a se stesso un valore infinito e di pensare a se stesso con sufficiente fiducia: è in quanto persona che merita la grazia dell’assistenza; non ha bisogno di farsi Dio per vivere in modo umanamente degno; anzi, la sua grandezza e dignità risiede proprio nel fatto che Dio lo ha creato essere umano. Il centro del messaggio di Gesù stava in questo insegnamento sulla fiducia; non abbiamo bisogno di fare di noi altro che quello che siamo, purché sappiamo vivere in pace in quanto persone.
Fintanto che siamo schiavi dell’angoscia, sostiene Eugen Drewermann, camminiamo costantemente sulle punte dei piedi per bilanciare i nostri complessi di inferiorità con una volontà artificiosa di grandezza. «E chi di voi», diceva Gesù a proposito di queste forme disperate di sovra-compensazione dell’angoscia, «per quanto si dia da fare, può aggiungere un cubito alla sua statura?» (Mt 6,27). In effetti: a che serve tutto quel darsi da fare per rendersi grandi e importanti? Il “programma” di Gesù consiste nel venirci a riprendere in queste zone di solitudine, dove ci ha portato lo sbandamento, e di restituirci la familiarità con la terra: un lembo di vita semplice e un lembo di relazione umana con noi stessi. Questa mite arte di vivere è qualcosa di tremendamente difficile, e a volte impossibile, per noi disturbati dall’angoscia; per trovare noi stessi, dobbiamo rinascere di nuovo attraverso un battesimo.
È disumano, continua Drewermann, vivere con pretese esagerate, perennemente ed esclusivamente addestrate a fornire prestazioni perfette. Gli eroi del mondo antico possono aver compiuto anche imprese sovrumane, ma noi esseri umani no. A noi questo racconto dell’ascensione di Gesù dice che non dobbiamo dare l’assalto al cielo per acquisire valore e dignità come persone umane; noi perdiamo noi stessi, come persone, se ci lasciamo, spingere dall’angoscia nel tendere verso altezze sempre più vertiginose, combattendo angosciosamente eventuali “compagni di viaggio” che possono offuscare la nostra immagine.
Ma attraverso l’angoscia abbiamo immagazzinato nella nostra anima una grande quantità di “veleno”; siamo degli autentici maestri nell’inoculare ciò che distrugge, nei sottili metodi di somministrare iniezioni che entrino nella circolazione dell’altro e lo avvelenino mortalmente: una parola calunniosa, una battuta di spirito apparentemente innocua, una piccola trovata in piacevole compagnia è sufficiente di solito per annientare l’altro, per presentarlo come un asociale, per rovinarlo socialmente. Di veleno mortale, fornito dalle fantasie dell’angoscia, possediamo riserve inesauribili: la cucina del pettegolezzo può preparare veleni in tutte le salse possibili e immaginabili.
In Gesù viveva questa fiducia benevola che noi possiamo sentirci a casa qui sulla terra, attraverso la distruzione progressiva di quell’io che avvilisce la persona in un groviglio soffocante di offerte, opinioni e ideologie da supermercato e che rendono la persona divisa e smarrita.
Nella visione dell’ascensione di Gesù si tratta di liberarsi dalla schiavitù delle circostanze, dal superamento del potere delle situazioni, dal raggiungimento di una visuale che sta al di sopra delle cose attraverso un processo tutto interiore. L’Ascensione offre la possibilità di avere una visione dall’alto della nostra vita e non essere più costretti a considerare il mondo come un magazzino e un manicomio, ma poterlo capire a partire dall’armonia tranquilla dell’eternità. In questo noi siamo in grado di fondare anche nel cuore delle altre persone una fiducia, che sconfigge la paura di fondare le relazioni con le armi della competitività e dell’aggressività.
La dote più importante che Gesù assegna a chi perviene alla fede in questo mondo incalzato dall’angoscia consiste nella capacità di «imporre le mani ai malati in modo che questi guariranno» (Mc 16,18). È la capacità della fede di dare, con un atteggiamento di fiducia incondizionata, un luogo di riparo e protezione alle persone, di stendere su di loro mani che le proteggono e di comunicare loro la sensazione di essere accettate con tutta la loro storia.
a cura del Monaco del Mondo
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