29 Apr Traccia di omelia della 6a Domenica di Pasqua – 05 maggio 2024
IL DISTINTIVO DEL CRISTIANO
(At 10,25-27.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17)
La salvezza non è un beneficio giudaico o cristiano, ma di tutti gli uomini, poiché l’amore di Dio non è circoscritto a un solo popolo, ma si effonde su tutti i suoi figli. L’abbaglio della maggior parte dei profeti è stato cancellato da Cristo, che ha chiesto di amare indistintamente tutti, senza guardare alla loro origine, all’estrazione o confessione religiosa, e nemmeno ai loro comportamenti morali. I pagani sono figli di Dio come gli Israeliti, arriva ad affermare Pietro, e sono oggetto della sua stessa benevolenza.
Il cristiano deve dimenticare di avere nemici, sia all’esterno come all’interno della propria convivenza. È la raccomandazione che Gesù fa ai suoi, di amarsi reciprocamente fino all’oblio di se stessi (Gv 15,13) e che il discepolo Giovanni ripete con insistenza, quasi come un ritornello, ai membri della sua comunità. L’amore non è solo un semplice sentimento, una disposizione benevola verso i fratelli, ma è anche rispetto, considerazione, stima, e soprattutto concreto aiuto materiale, morale oltre che spirituale. Se l’amore è una «partecipazione» di quello di Dio, di Cristo non può non essere fattivo, concreto. Anche le buone parole confortano, ma non sono sufficienti da sole a rendere l’uomo da infelice felice.
Prima lettura «Al pari di noi» (At 10,47)
Gli uomini «giusti e timorati di Dio» si trovano anche al di fuori del mondo israelitico (At 10,2,22). Cornelio, un centurione, nonostante la sua condizione, era uno di essi. Il discorso di Pietro (vv. 34-35) infrange uno dei canoni fondamentali della teologia ebraica. Il Dio di Abramo è il medesimo di tutte le nazioni. Per appartenere al suo popolo basta solo operare il bene. Il Dio della rivelazione, si può aggiungere, è lo stesso che parla dal fondo della coscienza umana. Quanto egli chiede o propone attraverso i profeti, lo stesso Cristo, è ciò che suggerisce a chiunque è in ascolto della sua voce. Non è un ragionamento a cui Pietro arriva da sé, tirando le conseguenze delle sue convinzioni teologiche, ma è suggerito, imposto direttamente da Dio, com’è attestato dalla «visione» da cui sono favoriti entrambi i protagonisti, Pietro e Cornelio (At 10,4-15). L’apparizione, vera o no, sta a simboleggiare che l’iniziativa viene dall’alto, non parte dall’uomo.
La confessione di Pietro (At 10,34-35) ha una portata ecumenica di cui sembra non esser stata ancora compresa l’estensione. L’atteggiamento dell’apostolo apre una linea che si rivelerà sempre ardua nella storia della chiesa. La salvezza passa attraverso il vangelo, ma il vangelo non è tanto una dottrina, quanto la carità di Dio che ha avuto in Gesù Cristo la più alta manifestazione. Sono le operazioni che dimostrano concretamente se il fedele ha fatto spazio nel suo animo alla pressione di bene che viene da Dio, se ha accolto la sua carità, se è un credente.
L’«ateo» non è quello che non crede, che non ha cioè concezioni, idee esatte su Dio, su Gesù Cristo, ma colui che non ama, non vive con rettitudine e santità di vita. Per questo il numero dei credenti è più esteso di quanto sia dato conoscere. Elia credeva di essere il solo rimasto fedele a Jahvé, ma il Signore gli fa vedere altri sette mila che non avevano piegato le ginocchia davanti a Baal (1 Re 19,18).
Seconda lettura «Amiamoci gli uni gli altri» (1Gv 4,7)
Il testo della 1Gv 4,7-10 è un inno alla carità. L’amore è donazione, offerta al bene altrui. Un movimento che per l’apostolo parte da Dio, giunge a Cristo, passa all’uomo e da questi si propaga verso i propri vicini. «Dio è carità» (1Gv 4,16), sa cioè solo donare, fare il bene. Chi riesce a comportarsi in tal modo dimostra di essere apparentato con lui («generato da Dio»).
La Bibbia fa ricorso a un particolare verbo per esprimere il miglior rapporto dell’uomo verso il proprio simile o verso l’essere ultimo, «conoscere». «Conoscenza» è sinonimo di comunicazione, di comunione, di amore, per questo l’apostolo afferma che chi non ama non è nemmeno conosciuto da Dio, cioè non è entrato in un rapporto vitale, esistenziale con lui. La predicazione ha fatto leva sull’incontro o consonanza mentale con Dio, più che sull’assimilazione delle sue inclinazioni di bene; ha creato delle grandi o piccole scuole teologiche, non delle comunità profetiche.
Le comunità dell’Asia non dovevano rifulgere per concordia, perfetta intesa, se Giovanni ritorna con assillante insistenza sul tema dell’agape e si stigmatizza come seguaci dell’anticristo i perturbatori della pace comunitaria. La chiesa non è nata santa, né è composta di santi e ciò che sembra maggiormente mancare tra i suoi membri è appunto ciò che dovrebbe essere in modo particolare maggiormente testimoniato, la comprensione reciproca.
Vangelo «Nel mio amore» (Gv 15,9)
(Per l’approfondimento cfr. https://dehonianiandria.it/lectio/)
Gesù ama gli uomini con lo stesso amore con cui è amato dal Padre, in maniera piena, perfetta, disinteressata. Solo chiede che venga ripreso e attuato da ciascuno nella propria vita. I «comandamenti» a cui fa appello non sono i commi della legge, ma le forme del precetto della carità (v. 12). Il vangelo ha cancellato la precettistica giudaica e non sembra intenzionato ad avallarne un’altra. Il massimo comandamento è l’amore, l’unica proibizione, per il quarto evangelista, è l’odio.
Il verbo «rimanere» (ménein) che l’evangelista ripete anche altrove nella sua opera (cfr. 1,38; 5,38; 6,27; 14,17; 15,9 ecc.), pari al sinonimo «conoscere», «comprendere», ha un significato teologico. Dio non ha un’abitazione, ma è lui stesso un rifugio, una dimora per l’uomo. La stessa attribuzione rivendica Cristo. In lui gli uomini trovano sicurezza, tranquillità, pace (cfr. 1,38). Rimanere nell’amore significa lasciarsi compenetrare dalla sua carità.
L’amore di Dio è vero, ma l’evangelista invita ad ammirare e a confrontarsi con quello di Cristo, più vicino, più immediato.
L’amore di Gesù Cristo verso i suoi si rivela dalla comunione che ha cercato di stabilire con loro. Egli non ha celato loro nulla, li ha messi anzi al corrente degli stessi segreti avuti in consegna dal Padre, si è posto perciò sul loro medesimo piano (vv. 12-15).
Il Padre è all’origine della vocazione di Gesù; Gesù lo è di quella degli apostoli. Egli è un inviato, tali sono anche i suoi seguaci. La sua opera deve portare frutti di bene, lo stesso la loro (v. 16).
L’azione di Cristo si svolge nel nome e con l’assistenza del Padre; con tale investitura e con tali garanzie si attua l’opera dei suoi collaboratori (v. 16).
La condizione unica, insostituibile dell’efficacia del lavoro apostolico è la carità o benevolenza reciproca (v. 17). La comune predicazione dà sempre un gran rilievo alla carità dell’uomo verso Dio (cfr. Mt 22,37), Giovanni richiama in primo luogo l’amore verso il prossimo. E questo che dimostra l’amicizia, la comunione con Dio. Se c’è l’uno non può mancare l’altro, mentre è possibile avere un apparente amor di Dio senza un vero amor del prossimo.
L’amore del Padre è insondabile e incontrollabile, trascende tutte le umane categorie; in Cristo esso ha un’attuazione, traduzione storica vicina, raggiungibile. Egli è il «sacramento» dell’amore di Dio, poiché nella sua vita e nelle sue operazioni appaiono i suoi comportamenti di bene. Attraverso l’amore di Cristo, eroico, sublime, «trascendente» si può intuire e intravvedere tutta la profonda carità di Dio.
L’amicizia di Gesù verso i discepoli è uno dei tratti più umani e toccanti della pericope. Un profeta, un legislatore, un maestro ha guardato sempre dall’alto i suoi uditori, Gesù si trova invece confidenzialmente alla loro pari.
CONCLUSIONE
L’ortodossia ha fatto passare in second’ordine l’ortoprassi, che i vangeli pongono al primo posto. Non salvano infatti i discorsi sulla verità, ma le operazioni che applicano e traducono il messaggio cristiano nella storia. Sono i frutti che rivelano la bontà dell’albero, non le digressioni, le definizioni, i pronunciamenti sull’esatta natura della pianta. Anche se questi possono avere un valore, è sempre relativo, secondario.
In Gv 13,34 Gesù parla di un «comandamento nuovo» cioè di un ordinamento comunitario in cui siano abolite le differenziazioni e discriminazioni e dove il servizio sia l’unica ragione di distinzione.
I discepoli di Cristo sono anch’essi profeti, ma come il loro maestro occorre che lo siano «in opere» oltre che «nelle parole» (At 1,1).
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