LA SPERANZA IN TEMPI DI CRISI

LA SPERANZA IN TEMPI DI CRISI

Gli indicatori sociologici, dalla statistica dei praticanti a quelle dei professionisti, attestano che ci tro­viamo di fronte a una crisi mondiale. Le immagini di città devastate dall’invasione russa dell’Ucraina e dal genocidio palestinese hanno assunto i tratti insanguinati di una sfida all’ordine mondiale, testi­moniando il dramma di milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case, in una crisi migra­toria a carattere biblico e segnata dai numerosi fili spinati. Parallelamente, i dazi imposti, accanto all’instabilità economica, stanno prospettando vie commerciali alternative, che aprono la strada verso nuove alleanze minacciose, colme di paurose tensioni. In questo clima di ansia, vivono nume­rose famiglie, colpite da una crescente insicurezza finanziaria e sanitaria. Sul fronte ambientale, eventi estremi, come gli incendi senza precedenti e le inondazioni devastanti, invocano l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico, mentre le tensioni personali e sociali emergono nelle strade delle città al punto che non è nemmeno necessario dimostrarlo. Nonostante la sfiducia e il pessimismo che affliggono la società, la capacità riflessiva testimonia che non abbiamo, ancora, toccato il fondo.

Una voce di speranza nell’immondezzaio di chi cerca solo ragioni, piuttosto che ascoltare, mette in guardia da una comunicazione pronta ad alimentare la paura, l’odio o la disperazione: una retorica che disumanizza e divide.

La negazione della sequenzialità di fatti ed eventi, a vantaggio della propria arbitraria ricostruzione, rende impossibile la comunicazione tra gli uomini e fa arretrare l’individuo a livello di bestia. Privile­giando una finta tolleranza, in nome di un presunto multiculturalismo, ci si rivolge al tuttologo di turno, una volta che tutte le nobili figure di riferimento sono state abbattute.

Un grande comunicatore è colui che setaccia l’oro tra i granelli di sabbia, in una terra gravata da storie dolorose. I comunicatori sono chiamati a raccontare storie di speranza, non per abbellire la realtà, ma per rivelare la bellezza che abita anche nelle tenebre, iniziando non con parole “convin­centi”, ma con una presenza e una testimonianza compassionevole, condividendo storie di coraggio e di misericordia.

Tutte le generazioni del passato, secondo Camus, si credevano nate per rifare il mondo. Ma la nostra sa che non lo rifarà. Il suo compito è ben più grande: consiste nell’impedire che venga distrutto.

La crisi è una realtà condivisa che investe tutti e tutto: ha smesso di essere un luogo comune nei discorsi e nell’establishment intellettuale. È presente ovunque e in ogni periodo della storia. Le crisi non si possono evitare e i loro effetti provocano, sempre, un senso di trepidazione, di angoscia, di squilibrio e di incertezza nelle scelte da fare. Tuttavia, rimane sempre una realtà con cui bisogna assolutamente fare i conti. Come tale, essa non può essere superata, ma solo “attraversata”. Di fronte alle crisi ricorrenti, complesse e multiformi del nostro tempo, il problema non è come uscirne, ma come starci dentro, consci che il nostro non è più il tempo disteso della ragione, ma è “l’adesso” della forza…ad ogni livello.

La sfida principale diviene, pertanto, la diffusione di questa speranza a partire dalle “persone di speranza” in cammino verso un’umanità che non dispera dei propri valori umanitari; tali valori si manifestano ogni volta che ci consideriamo “ospiti” della terra, capaci di mettere in gioco la nostra unica esistenza a favore degli altri… piuttosto che, dogmaticamente, condannare chi, con spirito critico, potrebbe essere sale della terra, ma non è allineato sulle nostre posizioni.

Byung-Chul Han, filosofo coreano naturalizzato tedesco, è tra le voci più lucide e critiche del nostro tempo. Nei suoi saggi, tra cui “Contro la società dell’angoscia”, ci offre uno specchio impietoso della condizione contemporanea: viviamo in una bolla narcisistica in cui l’altro non è più un mistero da incontrare, ma un riflesso da confermare. Così le relazioni diventano funzionali, rapide, consumabili. Ma la speranza ha bisogno dell’altro, come il respiro ha bisogno d’aria.

La speranza fiorisce nei legami che non hanno paura della vulnerabilità, perché è nella vulnera­bilità condivisa che si aprono le porte del cambiamento. Una società che ci vuole invincibili, ci priva della possibilità di essere umani. “Sperare” è tornare umani. È riconoscere che non siamo solo in­granaggi, ma esseri desideranti, fragili e forti insieme. È smettere di inseguire la perfezione che ci sta distruggendo, per abbracciare la pienezza della nostra imperfezione con il bisogno di una risco­perta di senso, che abbia un valore unificante, lontano dalla marcusiana unidimensionalità, e che sappia restituire alla persona umana la sua identità più profonda, fatta di ricerca dell’altro.

Purtroppo, in molti ambienti, la speranza è sembrata naufragare sugli scogli della solitudi­ne, dell’angoscia, e della disperazione; ma, come sostiene Georges Bernanos, dalla disperazione, non può forse germogliare una nuova speranza che, come un ponte, metta in contatto la nostra speranza con quella di chi l’ha perduta?

Foto di hosny salah da Pixabay 

                                               a cura di Elia Ercolino

(cfr. Presenza Cristiana 5/2025)

Nessun Commento

Sorry, the comment form is closed at this time.