
29 Ago PROTOCOLLO CEI–VIMINALE: IL BANCO DI PROVA PER L’ACCOGLIENZA LEGALE
Diocesi protagoniste, il governo riconosce il ruolo della Chiesa nell’inclusione dei migranti
L’intesa punta a superare l’emergenza, ma, senza fondi adeguati e una visione politica condivisa, resta il rischio di un’iniziativa isolata
In un Paese in cui il dibattito sull’immigrazione oscilla tra emergenza, propaganda e realtà quotidiana, il nuovo Protocollo d’intesa firmato l’11 giugno 2025 tra la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e il Ministero dell’Interno rappresenta una novità che può incidere in profondità sul sistema di accoglienza italiano.
Sottoscritto dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e dal Cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, l’accordo — valido due anni e rinnovabile — si propone di rafforzare e strutturare la collaborazione tra istituzioni statali e diocesi cattoliche, con l’obiettivo di promuovere canali legali di ingresso per migranti e richiedenti asilo, superare la logica emergenziale e favorire percorsi reali di inclusione sociale.
Un passo oltre i corridoi umanitari
Il Protocollo non nasce dal nulla. Si inserisce in un percorso di collaborazione che da quasi un decennio vede la CEI e altre realtà ecclesiali protagoniste di esperienze significative come i corridoi umanitari, attivi dal 2016 grazie al lavoro congiunto di Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Migrantes e altre organizzazioni.
In questi anni, i corridoi hanno permesso l’ingresso sicuro e regolamentato in Italia di oltre 7.000 persone vulnerabili, provenienti in gran parte da Siria, Afghanistan, Eritrea e, più recentemente, Ucraina. Si è trattato di un modello innovativo che ha evitato a migliaia di famiglie i viaggi della disperazione e ha mostrato come l’accoglienza possa essere legale, ordinata e umana.
Ma ora, come ha spiegato il Cardinale Zuppi, si intende andare oltre: “Non si tratta solo di aprire corridoi, ma di costruire comunità accoglienti e responsabili, dove legalità e solidarietà camminino insieme. Abbiamo il dovere di dimostrare che l’inclusione non è solo un ideale, ma una possibilità concreta e sostenibile, conveniente per tutti”.
Il ruolo delle diocesi: un radicamento prezioso nei territori
Il nuovo Protocollo punta a valorizzare proprio quel patrimonio di relazioni, conoscenza del territorio e capacità di intervento che le diocesi, le Caritas, le parrocchie e gli istituti religiosi hanno costruito nel tempo. L’accordo prevede l’attivazione di tavoli permanenti tra le prefetture e le realtà ecclesiali, con la possibilità per ogni diocesi di stipulare accordi specifici in base alle esigenze locali.
“Si formalizza una corresponsabilità che già esiste nei fatti — commenta don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana — Le diocesi accolgono da tempo famiglie in fuga da guerre, persecuzioni, povertà e disastri climatici. Questo protocollo ci consente di farlo in modo più efficace, dentro un quadro legale chiaro e condiviso”.
Anche il Ministro Piantedosi riconosce il valore di questa rete diffusa: “Il ruolo delle diocesi è cruciale. Nessuno meglio di loro conosce le fragilità e le potenzialità dei territori. Chi ha diritto a protezione deve poterla ottenere in modo sicuro e ordinato”.
Verso una governance condivisa
Il Protocollo istituisce un Tavolo tecnico nazionale permanente, con rappresentanti del Ministero dell’Interno e della CEI, che avrà il compito di monitorare le attività, promuovere buone pratiche e valutare l’impatto degli interventi. Un passaggio fondamentale per superare la frammentazione e garantire continuità nel tempo.
Ma le sfide non mancano, a partire dal nodo delle risorse economiche. Il Protocollo, infatti, non specifica quali fondi saranno messi a disposizione per sostenere le attività previste.
“Il rischio concreto — avverte Cristina Molfetta, antropologa e ricercatrice della Fondazione Migrantes — è che il carico ricada interamente su parrocchie e volontari, già provati da anni di emergenze e da una gestione spesso precaria. Servono risorse certe e strutturate, altrimenti anche le migliori intenzioni restano sulla carta”.
Pluralismo e inclusione: il rischio di lasciare indietro altri attori
Un altro punto critico riguarda il pluralismo dell’accoglienza in Italia. L’intesa coinvolge formalmente solo la CEI, ma la realtà dei territori racconta di un impegno che va ben oltre il mondo cattolico: comunità evangeliche, centri islamici, ONG laiche e associazioni del Terzo settore sono da anni parte attiva nei percorsi di accoglienza.
Per Valerio Neri, ex direttore di Save the Children, “sarebbe auspicabile estendere il modello a tutti i soggetti che si occupano di inclusione, costruendo un sistema realmente plurale, che rispetti le diversità culturali e religiose e valorizzi le competenze di tutte le componenti della società civile”.
La politica e la narrazione pubblica: l’inclusione non può essere solo emergenza
Il rischio principale, segnalano gli esperti, è che il Protocollo resti un gesto nobile ma isolato, se non accompagnato da un cambiamento culturale e politico. “Accoglienza e integrazione non possono dipendere dalla buona volontà di pochi — ammonisce il sociologo Maurizio Ambrosini, docente all’Università di Milano —. Devono diventare politiche di sistema, sostenute da una narrazione pubblica coerente e non ostaggio della propaganda o della paura”.
Un’idea condivisa anche da Paola Ottaviano, avvocata e attivista per i diritti dei migranti: “Superare la logica emergenziale significa investire in una governance stabile, in percorsi coordinati e in una visione che tenga insieme sicurezza, diritti e inclusione”.
Accoglienza e cittadinanza: due facce della stessa sfida
A offrire un’analisi lucida è l’Arcivescovo Mons. Gian Carlo Perego, Presidente della Fondazione Migrantes e della CEMI (Commissione Episcopale per le Migrazioni). Per Perego, il Protocollo rappresenta il riconoscimento del ruolo fondamentale che le Chiese in Italia hanno svolto negli ultimi anni nell’ambito dell’accoglienza, della tutela, della promozione e inclusione dei migranti.
Tuttavia, avverte, le parole devono essere seguite dai fatti: “Alla luce del riconoscimento dell’esperienza di collaborazione – commenta mons. Perego – che in questi anni si è sviluppata tra le Chiese locali, la prefettura, la Questura e le Forze dell’ordine, che ha riguardato l’accoglienza dei richiedenti asilo, dei rifugiati, degli ucraini in protezione temporanea, la realizzazione di corridoi umanitari – che hanno visto, però, interessati una piccola platea di oltre 7000 persone migranti in questi anni – , il rimpatrio assistito di persone migranti, anche vittime di tratta, e numerosi progetti di inclusione sociale, la Presidenza della CEI e il Ministero hanno firmato un accordo per una collaborazione anche a livello nazionale per rafforzare canali legali d’ingresso, che non si riducano ai corridoi umanitari per i migranti, l’accoglienza dei migranti – anche in strutture di proprietà di enti ecclesiali e dei richiedenti asilo e rifugiati, progetti di inclusione. Pertanto, non si tratta di un accordo che riguarda soltanto la politica migratoria del Governo, ma a riconoscere da parte dello stesso Governo l’importante impegno delle Chiese in Italia nell’accoglienza, tutela, promozione e inclusione dei migranti. A questo proposito occorrerà vedere concretamente le risorse che il Ministero metterà a disposizione per realizzare canali legali, modificando il sistema flussi che genera ogni anno irregolarità di fatto, poi sanate con le cosiddette ‘regolarizzazioni’; se aumenterà strutture di comunità specifiche per minori non accompagnati, ad esempio, e per i progetti d’inclusione, per i quali oggi le risorse sono veramente scarse, a fronte di un ingente impegno delle realtà ecclesiali, cioè le Diocesi e le parrocchie con le Caritas, le Migrantes, gli Istituti religiosi. Per monitorare il lavoro è stato stabilito un tavolo tecnico permanente tra le parti a livello nazionale”.
Dalle firme ai fatti: un’occasione che il Paese non può sprecare
Il Protocollo CEI–Viminale, al di là degli aspetti tecnici, rappresenta anche una sfida culturale.
Mette nero su bianco è un principio fondamentale: l’accoglienza non è solo un atto di carità, ma una questione di legalità, dignità e sicurezza condivisa. Come ha ricordato il Cardinale Zuppi, “la sicurezza non si ottiene con i muri, ma con l’incontro. L’inclusione è possibile, concreta, sostenibile, se gestita con serietà e visione”.
Ora tocca alla politica, alle istituzioni, alle comunità locali e al mondo ecclesiale trasformare la carta in percorsi reali di speranza. Perché nel tempo dell’instabilità globale e delle identità in bilico, la sfida dell’accoglienza non è solo un tema di cronaca, ma una questione che riguarda il futuro stesso della convivenza e della democrazia italiana.
di Marilena Pastore
(cfr. Presenza Cristiana 5/2025)
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