
12 Ott Proposta di omelia per la 29a domenica del tempo ordinario (anno C) 19 Ottobre 2025
LA PREGHIERA
(Es 17,8-13a; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8)
Dio è, per l’autore sacro, il primo protagonista della storia. Egli guida le vicende umane fino alla destinazione voluta. I fedeli che sono oppressi dai nemici non debbono pensare tanto a strategie difensive quanto a raccomandare a lui la loro causa. Anche quest’accorgimento sembra far parte degli insegnamenti scritturistici a cui allude l’autore della 2Tm 3,16, ma non è forse tra i più utili.
La fede è comunione con Dio: essa si esprime anche con gesti e simboli ma questi la segnalano e la confermano ma non l’accrescono. Cresce solo attraverso la carità e il bene.
La preghiera è un messaggio fondamentale del libro sacro; Gesù lo ribadisce nella parabola del giudice iniquo: ma non è una ricetta valida a risolvere tutti i problemi dell’uomo. Dio è sempre pronto a intervenire a favore delle sue creature, ma non forza le loro decisioni; rispetta addirittura i loro limiti, persino la loro pigrizia e i loro difetti.
Il piano è quello che Dio ha ideato ma nella risultante che gli uomini sono riusciti a imporgli.
La richiesta di aiuto è sempre la più spontanea che viene in mente all’uomo quando si trova davanti a Dio. Anzi, sembra che ci si ricordi di lui solo quando se ne ha bisogno. La parabola evangelica sembra presentare Dio come il mallevadore dei deboli e degli oppressi, di quanti cercano protettori e liberatori. Il discorso è più convincente ma, può darsi non scevro da ambiguità. Se i mali che affliggono gli uomini potessero essere eliminati con una siffatta richiesta, da tempo la storia avrebbe preso un altro corso.
Non è perché non si è pregato con quell’insistenza di cui parla Lc 18,1 che i mali non sono scomparsi, ma perché l’uomo non ha messo tutto il suo impegno a capire e ad attuare quello che Dio gli chiedeva. Il bene e il male non sono distribuiti in proporzione della fedeltà o infedeltà verso Dio, ma della solerzia con cui si risponde alle sue sollecitazioni.
Prima lettura: «Il bastone di Dio» (Es 17,9)
L’Esodo racconta il duro cammino d’Israele verso la libertà.
La storia non è narrata dall’autore sacro secondo lo svolgimento originario, ma conformemente a una tesi o preoccupazione teologica. Sono le gesta di Jahvè che si svolgono tramite i figli d’Israele. Tuttavia la realtà storica non è del tutto cancellata. La terra è un dono di Dio, ma anche il risultato di una conquista. Il cammino per accedervi è quello della guerra contro i popoli che vi si frappongono. Tra questi il testo ricorda gli amaleciti (cfr. Nm 24,20). Anche in seguito ricompariranno tra i nemici d’Israele (1Sam 15,29) e il Deuteronomio esorta a cancellare la loro «memoria da sotto il cielo» (25,19).
La battaglia non è descritta, ma riletta attraverso il gesto magico di Mosè che guida il popolo dall’alto. Finché essi vedono il loro condottiero, le sorti volgono a favore: quando egli sfugge al loro sguardo, essi perdono ardimento. Il «bastone di Dio» che Mosè regge in mano è la verga del pastore (4,20) con la quale aveva colpito il fiume che si era diviso e poco prima aveva percosso la roccia e aveva dato acqua abbondante (17,5-6): portava la designazione «di Dio» perché Mosè agiva in suo nome e con gli stessi suoi poteri. Tenuto in alto esso ricordava a Israele l’alta protezione che godeva, e a Dio gli impegni presi con il suo popolo.
Le vicende umane si susseguono secondo le loro leggi, cioè l’azione e la contro-azione delle forze che in esse sono in gioco. Dio ne è al corrente ma non ne modera unilateralmente il corso: per il teologo ebraico, invece, tutto avviene a suo comando, persino gli ordini di attacco che in realtà provengono dal re o dai suoi rappresentanti. Jahvè porta anche il nome di «Dio degli eserciti» (cfr. Is 6,5; 18,7) ma è il più arbitrario che gli uomini gli abbiano attribuito. La Bibbia parla egualmente delle «guerre di Jahvè», ma non è anche questa la notizia più importante che riferisce.
Far risalire a Dio un’iniziativa bellica, connessa tanto più con lo sterminio dei vinti, rei di aver cercato di difendere il loro territorio da un ingiusto aggressore, non è un’affermazione che si può ripetere con troppa disinvoltura.
Il credente può continuare ad attribuire i successi della «storia della salvezza» a un particolare intervento divino, ma sono più i problemi che esso solleva che le soluzioni che apporta.
Seconda lettura: «Ispirata da Dio» (2Tm 3,16)
L’autore della 2Tm è un pastore molto accorato della sorte del suo gregge che vede minacciato da propagatori d’errori (3,8). Timoteo è per questo invitato a ricordare gli insegnamenti (didaskalia) ricevuti, le cose apprese che sono alla base della sua certezza, dato che le ha ricevute da persone degne di fede: i familiari (1,5) e in modo particolare Paolo (1,1).
La preoccupazione principale del pastore appare già essere quella della fedeltà all’insegnamento ricevuto (ortodossia). Implicitamente vi è un attacco contro i tentativi di calare il messaggio dentro le nuove situazioni: i differenti contesti culturali in cui l’evangelizzazione veniva a trovarsi.
Il testo è anche la più chiara e ampia apologia che il libro sacro fa di se stesso. Il richiamo alle Scritture è per controbilanciare la predicazione dei «ciarlatani» che si aggiravano per la chiesa di Efeso: «ingannatori» e a loro volta «ingannati» (v. 13). Essi sono probabilmente dei giudei; per questo il richiamo alla portata e alla ispirazione delle Scritture a cui essi pure facevano riferimento. Il senso di «theopneustos» (divinamente ispirato) non è indicato, ma richiama sempre un influsso divino nella composizione e nel contenuto del libro.
Gli avversari non sanno o non vogliono sapere che le Scritture spianano la strada a Cristo, nel quale «tutte le promesse di Dio hanno trovato il loro sì» (2Cor 1,20). Esse hanno uno scopo propedeutico, apologetico, ma anche pastorale. Con in mano le Scritture l’«uomo di Dio», cioè chi è insignito di incombenze comunitarie, può assolvere degnamente il suo ufficio e attendere al suo perfezionamento spirituale.
La Scrittura è norma di verità, ma anche di vita. Essa contiene i criteri per educare (pros paideian) l’uomo nella giustizia; per formare un credente convinto, ma soprattutto retto. Quando lo scopo è il bene del fratello si può ricorrere anche all’indiscrezione, ai rimproveri, alle minacce. Ma lo zelo non può essere disgiunto dalla pazienza (makrotymia) e competenza (didaché).
La fermezza è richiesta contro i fermenti di novità: le «favole» che cercano di farsi strada al posto della verità. Solo che la distinzione tra una cosa e l’altra non è sempre così evidente come appare all’autore.
Vangelo: «Farà giustizia» (Lc 18,7)
Il protagonista della parabola è un giudice. Egli si è impegnato davanti alla comunità a salvaguardare il buon ordine, a reprimere gli abusi e a far prevalere la verità; di fatto svolge spesso la funzione opposta: avalla, con la sua autorità o inerzia, la sperequazione e i soprusi. Dove il potere è forte la giustizia è debole.
I profeti non hanno mancato di redarguire le connivenze, persino la corruzione della categoria dei giudici (cfr. Am 2,7; 5,7-12). Gli unici tutori che il popolo minuto e angariato possedeva (i potenti si difendono da soli) passavano di frequente dalla parte degli oppressori. La tentazione a fare alleanza con il potere e ad abbandonare gli indifesi è facile, e i più sembrano cadervi. Anche Gesù è stato tentato di fare lo stesso, ma il suo animo vi si è ribellato (cfr. Lc 4,1-13).
Il quadro di Lc 18,1-8 è calcato per la lezione che l’autore si propone di impartire. Non solo il giudice è iniquo, ma anche ateo. Davanti a lui vi è una vedova che, insieme all’orfano e al forestiero, era nel mondo ebraico la persona più indifesa. La legge era dalla sua parte (cfr. Es 22,22; Dt 21,17-21), ma nessuno prendeva a cuore di farla valere. La donna cambia allora tattica: stancare l’indifferenza del giudice e farlo decidere a intervenire.
L’evangelista non si preoccupa di stigmatizzare la malafede dell’uomo della legge, ma di segnalare il suo comportamento iniziale e l’improvviso mutamento finale.
Il messaggio della parabola è la perseveranza nella preghiera (v. 1). Se uomini malvagi si piegano, alla fine, alle richieste dei loro subalterni, tanto più si renderà accondiscendente Dio con i suoi figli. In realtà si tratta di un’immagine e di un’illustrazione poco felici, ma il parabolista mira alla lezione finale (v. 7). Certamente Dio non è un tiranno, né un giudice, tanto meno di tale fattura; egli non ascolta gli uomini per non sentirsi importunato da loro, ma perché li ama (cfr. Lc 15).
La preghiera occupa un largo posto soprattutto nel terzo Vangelo. Essa appare un appoggio sicuro per superare tutte le difficoltà. L’affermazione ha il suo peso, ma è sempre suscettibile di fraintendimenti che possono comprometterne la portata. Pregare senza stancarsi è il dovere del cristiano, ma le domande da rivolgere sono suggerite da Gesù nel «Pater» (Lc 11,2-4) più che quelle che provengono dalle proprie preoccupazioni.
L’uomo antico ha creduto che tutto si potesse ottenere con una buona raccomandazione. Una tale norma doveva valere anche per Iddio se non che il discorso evangelico non è al riguardo uniforme. Qui Gesù esorta alla preghiera insistente (cfr. Lc 6,5-12), altrove chiede di non fare come «i pagani che credono di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole» (Mt 7,6-7). I Vangeli da una parte presentano Dio, sempre attento alla vita dell’uomo e degli esseri che lo circondano (cfr. Mt 6,5-7.25-34), e dall’altra fanno leva sulle richieste accorate che impietosiscano il suo cuore fino ad accordare la grazia. Forse l’uno e l’altro sono tentativi umani di intendere il mistero di Dio, entrambi relativi se non falsi.
Conclusione
La preghiera di domanda non dovrebbe essere eliminata dalla vita del credente, ma egli dovrebbe cercare di scoprire non quello che egli vuole proporre a Dio, ma quello che Dio si preoccupa di far pervenire a lui. Dio solo conosce il vero bene dell’uomo e il modo migliore di realizzarlo. Una richiesta si può sempre interporre in questo rapporto, ma dovrebbe essere quella di riuscire a non intralciare l’opera di Dio. Più che sulla preghiera di domanda occorre far leva su quella di ascolto. In questo senso si può dire che occorre pregare senza stancarsi mai.
Non è importante che l’uomo dia suggerimenti a Dio; occorre, al contrario, essere pronti a riceverli da lui.
La frase finale sull’eventuale affievolimento o scomparsa della fede alla venuta del figlio dell’uomo riflette il pessimismo di particolari strati della chiesa delle origini che l’evangelista ha fatto proprio.
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